Fin dalla sua emanazione il decreto presidenziale
22 giugno 1946 n. 4 fu definito “amnistia Togliatti”; denominazione non molto
gradita al guardasigilli, della quale tuttavia prese atto e che egli stesso
utilizzò tre anni più tardi nella dura polemica parlamentare col ministro
Scelba. Tuttavia la storiografia
comunista ha rigettato una paternità così imbarazzante e ha suggerito che la
corretta impostazione togliattiana era stata frenata dal conservatorismo di De
Gasperi e poi tradita dalle interpretazioni giudiziali dei magistrati
filofascisti; venne pure ipotizzato che la burocrazia ministeriale avesse teso
un tranello al guardasigilli fornendo una formulazione tecnicamente infelice di
alcuni articoli per consentire l’applicazione del provvedimento anche ai capi
fascisti e ai responsabili di gravi reati. In realtà, dalla documentazione
d’archivio risulta che parti significative del decreto furono stese di pugno
dallo stesso ministro. Le “carte Togliatti” attestano l’immediata
consapevolezza da parte dello statista delle dimensioni massicce delle
scarcerazioni, in contrasto con le versioni minimizzatici da lui fornite per
rassicurare l’opinione pubblica. L’intreccio delle fonti governative conservate
presso l’Archivio centrale dello Stato con i fondi depositati dal PCI alla
Fondazione Gramsci dimostra l’ampiezza della ribellione dei militanti e
simpatizzanti della sinistra. Togliatti, bersagliato da critiche, si trovò in
una situazione insostenibile e ne uscì nel giro di una ventina di giorni con
l’abbandono del dicastero, affidato al compagno di partito – e suo uomo di
fiducia – Fausto Gullo, da più di due anni ministro dell’Agricoltura.
L’amnistia fu una concausa, se non il motivo principale, dell’uscita del
dirigente comunista dal governo, spiegata con la necessità di dedicarsi al
partito e alla politica estera. La scelta di Gullo, dovuta al rapporto
fiduciario con Togliatti e alla sua competenza in quanto avvocato, “uomo di
legge”, si dimostrò improvvida per almeno due ragioni: l’abbandono del
ministero dell’Agricoltura, strategico per i rapporti di classe nelle campagne;
l’inadeguatezza del “ministro dei contadini” a gestire il dicastero di Grazia e
Giustizia in una situazione d’emergenza. A fronte dell’applicazione estensiva
dell’amnistia per i reati commessi dai fascisti la magistratura perseguì con
rigore i reati perpetrati dai partigiani. Proprio in quanto determinati
comportamenti infangavano la Resistenza, bisognava sanzionarli e colpire chi approfittò
della situazione per regolare conti personali […] Si sarebbe dovuto impegnare
altrettanta energia nei confronti dei collaborazionisti della guerra civile e
dell’occupante responsabile di terribili eccidi, mentre i rigori della legge
furono riservati agli ex resistenti: un bel paradosso, se si considera che tra
i motivi ispiratori del decreto compariva la volontà di risolvere anche le
pendenze giudiziarie dei partigiani; un problema rimasto aperto nonostante
l’emanazione di una specifica amnistia nel novembre 1945, poiché su quel
versante la magistratura era poco ricettiva […] L’allontanamento dei fascisti
da ruoli di rilievo in campo politico-amministrativo, prima ancora di divenire
programma politico dei nuovi governanti, fu una condizione imposta nell’autunno
1943 da Stati Uniti, Inghilterra e Unione Sovietica, che alle conferenze di
Teheran e di Mosca indicarono al governo Badoglio la via di un profondo
rinnovamento del personale e delle strutture statali. La “risoluzione
sull’Italia” approvata dalla Conferenza interalleata prefigurava la rimozione
di “tutti gli elementi fascisti o filofascisti” dall’amministrazione statale e
dalle istituzioni pubbliche. Sino alla liberazione di Roma (4 giugno 1944),
l’epurazione dei funzionari compromessi col sistema di potere mussoliniano fu
disposta direttamente dal Governo Militare Alleato, sul modello di quanto era
avvenuto in Sicilia dopo l’avanzata militare, con l’allontanamento di prefetti
e podestà […]
Il governo Bonomi avviò la “discriminazione” e la punizione dei
delitti fascisti col decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n.
159. L’articolo 2 istituiva l’Alta corte di giustizia per le sanzioni contro il
fascismo per procedere al giudizio e l’Alto commissariato con il compito di
istruttoria e di accusa nel dibattimento. L’articolo 3 colpiva gli
organizzatori “delle squadre fasciste, le quali hanno compiuto atti di violenza
o di devastazione, e coloro che hanno promosso l’insurrezione del 28 ottobre
1922, coloro che hanno promosso o diretto il colpo di Stato del 3 gennaio 1925
e coloro che hanno in seguito contribuito con atti rilevanti a mantenere in
vigore il regime fascista”. Le amnistie emanate nel ventennio per reati
squadristici erano dichiarate inefficaci. L’articolo 5 perseguiva chiunque dopo
l’8 settembre 1943 avesse “commesso o commetta delitti contro la fedeltà e la
difesa militare dello Stato, con qualunque forma di intelligenza o
corrispondenza o collaborazione col tedesco invasore, di aiuto o di assistenza
ad esso prestata” […] Contro le sentenze, le ordinanze e gli altri
provvedimenti dell’Alta corte di giustizia non era ammesso alcun mezzo di
impugnazione. Con decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1945, n. 625,
l’Alta corte di giustizia venne soppressa e i procedimenti pendenti passarono a
una sezione speciale di Corte di assise. I funzionari distintisi per faziosità
politica erano sottoposti a misure amministrative e a sanzioni penali. Le
procedure di defascistizzazione si avviarono nel Regno del Sud mentre ancora la
guerra era in corso […] Titolari dei diplomi di “marcia su Roma” e “sciarpa
littorio”, ufficiali della Milizia ed ex ministri dovevano essere rimossi da
ogni incarico e puniti a seconda delle rispettive responsabilità […] La
defascistizzazione e l’applicazione dell’amnistia furono delegate ai giudici,
tra i quali figuravano epuratori ed epurabili. Per svolgere il suo compito la
magistratura doveva a sua volta liberarsi dei personaggi promossi per meriti
politici o che avevano operato in modo settario; non era infatti ammissibile lo
spettacolo di un giudice che giudicasse, in via penale o in via amministrativa,
un imputato di collaborazione col regime fascista, se non fosse stato con
certezza immune egli stesso dalle medesime colpe; l’epurazione della
magistratura era quindi prioritaria e il fallimento di questa operazione
avrebbe portato facilmente al fallimento generale di tutto il processo di
epurazione. La fascistizzazione della magistratura si era compiuta per gradi,
attraverso comportamenti quotidiani di adattamento alle priorità dell’Italia
littoria. Nel 1925 i giudici ostili alla dittatura erano stati dispensati dal
servizio e l’Associazione generale fra i magistrati sciolta d’autorità. Il
provvedimento punitivo, oltre a eliminare i pochi dissidenti, intimidì e ammaestrò
i potenziali frondisti. Il passo successivo fu l’istituzione del Tribunale
speciale per la difesa dello Stato, composto da ufficiali delle camicie nere e
specializzato nella repressione dei reati politici. La costituzione di un
organismo rivolto specificamente alla lotta agli oppositori esprimeva sfiducia
nell’affidabilità della giustizia ordinaria in questo compito. Al contempo
l’alta magistratura venne via via inglobata nel nuovo sistema di potere. Il
guardasigilli Alfredo Rocco – artefice della riforma dei codici penali –
suggellò nel 1932 il lungo mandato ministeriale col ritiro del premio
Mussolini, conferitogli dall’Accademia d’Italia. I suoi successori accentuarono
il processo di identificazione dello Stato col regime. L’ordinamento della magistratura
deliberato nel 1941 riservava l’accesso ai ruoli ai cittadini di “razza
italiana” e di sesso maschile iscritti al Partito nazionale fascista […]
Vent’anni di dittatura avevano allineato l’istituzione giudiziaria e plasmato
la maggioranza dei magistrati alle direttive del duce. L’iscrizione al partito
unico costituiva il prerequisito per la partecipazione ai concorsi pubblici […]
La situazione alla liberazione vedeva la convivenza di una minoranza di giudici
indipendenti con numerosi elementi che, formatisi culturalmente nell’Era
Fascista, continuarono ad amministrare la giustizia secondo i criteri consueti.
Caduto il fascismo, i nuovi governanti rinunziarono alla seria revisione del
personale giudiziario, come d’altronde accettarono in blocco le norme del
Ventennio, incluso il Codice Penale Rocco, idonee, pur nelle mutate circostanze
politiche, a finalità di controllo e repressione sociale. Il comunista Palmiro
Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia dal giugno 1945 al luglio 1946,
assicurò l’autonomia alla magistratura e con apposito decreto l’indipendenza
del pubblico ministero dal governo; un provvedimento apprezzabile, che però in
assenza di una scrematura dei giudici rafforzò la componente “nostalgica”.
Nella primavera del 1945 la Commissione ministeriale per l’epurazione del
personale definì secondo criteri di estrema benevolenza la posizione di circa
400 giudici, rimasti ai loro posti. Soluzione prevista da un esponente della
nuova classe dirigente, il democristiano Mario Scelba, futuro ministro
dell’Interno, che a fine 1944 espresse a don Luigi Sturzo giudizi rassegnati
sul malfunzionamento dell’epurazione: “La compromissione politica è stata così
generale d’altro canto che è difficile persino trovare degli epuratori
antifascisti appartenenti alle classi medie ed intellettuali, e quindi si
assiste allo spettacolo di epuratori che dovrebbero essere a loro volta
epurati” […] La maggioranza dei giudici aveva accettato l’identificazione tra
Stato e fascismo: “fedeli funzionari dello Stato”, transitavano senza scossoni
da Mussolini a Badoglio, poi di nuovo da Mussolini (RSI) a Parri, dal Regno
d’Italia alla Repubblica sociale, dalla monarchia alla Repubblica parlamentare
[…] La permanenza del personale tra fascismo e democrazia si accompagnò alla mitizzazione
dell’apoliticità e del ruolo tecnico del giudice. Continuità e progressione di
carriera non furono intaccate dalle inchieste che si chiusero in tono minore e
con scarsi esiti […] L’eccessiva e continua emanazione di norme spianò il campo
a sovrapposizioni di leggi, decreti e circolari con interminabili diatribe
interpretative, mentre l’esame delle singole posizioni procedeva con estenuante
lentezza dentro un contesto politico in rapida evoluzione, quasi che i
funzionari attendessero il momento idoneo alla chiusura indolore delle pratiche
loro affidate. I magistrati compromessi politicamente non erano di certo
propensi ad applicare con rigore la legislazione contro i crimini fascisti.
Decine di migliaia di indagini aperte e una produzione alluvionale di norme
punitive sembravano cambiare tutto, ma la forza d’urto fu assorbita e resa inerte dalla macchina
burocratica, fulcro della continuità istituzionale. In questo modo fu garantito
il funzionamento dell’apparato statale, che altrimenti si sarebbe incagliato.
Defascistizzazione e ricostruzione parvero incompatibili poiché una seria
epurazione avrebbe sguarnito gli organici, in una situazione già appesantita dalla carenza di personale […] Le nuove leggi
dell’Italia democratica consideravano responsabilità oggettiva l’avere
rivestito incarichi direttivi nelle organizzazioni del regime; sennonché questo
criterio, se applicato con rigore, avrebbe colpito anche gli epuratori, in gran
parte esponenti di quella stessa classe dirigente chiamata alla resa dei conti
[…] Vennero elaborate interpretazioni giurisprudenziali ardite, secondo le
quali l’aver rivestito un incarico di primo piano, anche nel governo o nelle
forze armate della RSI, non comportava responsabilità di sorta; l’eventuale
sanzione dipendeva dall’effettivo esercizio settario e fazioso di un’attività
considerata rilevante nel rafforzamento del fascismo. Criterio in sé
accettabile, che però, congiunto a valutazioni di massima comprensione verso i
gerarchi, si tradusse in una raffica di proscioglimenti indifferenziati.
Attraverso le maglie larghe di un simile
setaccio passarono ministri, dirigenti dell’OVRA, presidenti del Tribunale
speciale per la difesa dello Stato e segretari del Partito nazionale fascista,
salvati in blocco dall’amnistia Togliatti […] Il passaggio dalla punizione al
proscioglimento dei capi politico-militari fascisti fu segnato dalla
controversia sulla validità delle sentenze dell’Alta corte di giustizia.
Secondo la legge esse erano definitive e in un primo tempo la Cassazione si
adeguò alla norma. Il 7 luglio 1945, con decisione a sezioni riunite, fu
respinto il ricorso di Francesco Jacomoni, emissario di Mussolini in Albania e
suo fiduciario presso il capo degli ustascia croati, condannato a 24 anni per
“atti di politica estera e di azioni delittuose intese al rafforzamento del
fascismo, nel quadro della politica internazionale, svolgendo tra l’altro
attività volte a promuovere gli assassinii di re Alessandro di Iugoslavia e del
ministro degli Esteri francesi Barthou”, con la motivazione che “contro la
sentenza dell’Alta corte di giustizia è inammissibile il ricorso per Cassazione
anche per il motivo di difetto assoluto di giurisdizione” […] Sensibile ai
mutamenti del clima politico e dell’opinione pubblica, nel maggio 1946 la Corte
suprema ribaltò i criteri di giudizio e – contrariamente alle conclusioni del
pubblico ministero – accolse il ricorso del generale Alberto Pariani,
sottosegretario alla Guerra nel 1936-39, già condannato a 15 anni. Creato il
precedente, vennero cancellate le pene inflitte dall’Alta corte all’ex
ambasciatore a Berlino Filippo Anfuso e ad altri fascisti condannati in
contumacia per reati che variavano da “atti rilevanti” a operazioni di
terrorismo internazionale, incluso l’assassinio dei fratelli Carlo e Nello
Rosselli […] L’annullamento delle decisioni dell’Alta corte di giustizia, per
incompetenza e eccesso di potere, liberò gerarchi destinati a scontare
venti-trent’anni di reclusione […] In luogo dello scontro tra poteri dello
Stato (Cassazione contro Alta corte di giustizia) si verificò l’accettazione
tacita delle cancellazioni di sentenze teoricamente definitive, finché, nel
clima conciliante della primavera 1947, la Costituente legalizzò la situazione
e i condannati in via definitiva poterono presentare ricorso, con la fondata
speranza di essere amnistiati. Questo passaggio rese possibile la distruzione,
sentenza dopo sentenza, di tutta l’impalcatura giurisdizionale dell’Alta corte
di giustizia, incluso l’annullamento della decadenza dal mandato per i senatori
fascisti […] La revisione di condanne “inappellabili” fu estesa ai latitanti,
nascosti nei conventi o rifugiati all’estero. In assoluta linearità con
l’indirizzo assolutorio, data anche la controversa applicabilità del criterio
retroattivo, la Cassazione controllò e modificò in modo rilevante i giudizi
delle Corti straordinarie di assise sui casi di collaborazionismo con
l’invasore tedesco ed estese a dismisura l’attuazione dell’amnistia Togliatti
potendo avvalersi di alcuni difetti tecnici e della genericità di talune
formulazioni […] Nominato ministro di Grazia e giustizia nel governo Parri il
19 giugno 1945, Palmiro Togliatti rivolse ai giudici un saluto augurale in cui,
nell’assicurare l’indipendenza della magistratura, baluardo dello Stato democratico,
raccomandò l’applicazione solerte delle nuove leggi, per aiutare il Paese a
superare il momento critico e avvicinare “il momento in cui, severamente puniti
i responsabili della catastrofe e i traditori, tutte le forze della Nazione
potranno riconciliarsi e procedere unite nello sforzo della ricostruzione” [..]
Tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946, all’impetuoso soffio del vento del
Nord si era sostituito un clima più mite, che aveva dissolto le istanze di
cambiamento radicale. La fine di una stagione è annunciata dal licenziamento
dei prefetti politici nominati dal CLN alla cessazione degli spari e sostituiti
nel febbraio 1946 da funzionari di carriera, ovvero dal personale selezionato
dal regime fascista. Né il titolare dell’Interno, il socialista Giuseppe
Romita, né gli altri ministri della sinistra contrastarono una misura restauratrice dal forte valore
simbolico e dai rilevanti effetti pratici, voluta e imposta dai liberali.
Rimase in servizio un solo prefetto politico, l’ex comandante partigiano della
Brigata Maiella Ettore Troilo, ma si trattò soltanto di un rinvio: fu
allontanato da Milano dopo la svolta centrista, nel novembre 1947; in segno di
protesta ex partigiani capeggiati dal deputato comunista Pajetta occuparono la
prefettura (ancora nel 1960 ben 60 prefetti su 62 erano nei ruoli dall’epoca
fascista). Il reinserimento nella vita nazionale della massa dei sostenitori
del regime, troppo numerosi per essere accantonata, imponeva scelte risolute.
Raffreddati gli entusiasmi della liberazione, i settori moderati esprimevano
decise istanze di pacificazione che in sostanza incontravano anche
l’intelligente calcolo dei partiti della sinistra ancora impegnata nel governo
e intenzionata ad assumere un ruolo politico trainante nel futuro scacchiere
istituzionale italiano. Gli stessi fascisti, desiderosi di tornare alla vita
pubblica, si posero il problema del superamento dell’emergenza; preso atto
della sconfitta, alcuni reduci della RSI s’impegnarono nella revisione dei
valori di riferimento. Taluni individuarono nei partiti di sinistra un
interlocutore prezioso per la ridefinizione del proprio percorso politico, in
continuità ideale con l’anelito rivoluzionario che li distingueva dalla destra
conservatrice. Permanevano, beninteso, diffidenze reciproche, stante la
vicinanza a eventi che avevano seminato lutti in entrambi gli schieramenti. Di
canali informali di comunicazione tra vinti e vincitori – attivati durante la
campagna elettorale della Costituente, quando i voti degli ex fascisti allettavano
tutti – è rimasta documentazione scarna, seppure sufficiente a delineare un
dialogo a tutto campo, avviato da esponenti monarchici, centristi e di sinistra
ed esponenti del defunto governo di Salò […] Alcuni combattenti irriducibili
proposero ad agenti segreti statunitensi l’intesa in chiave anticomunista, per
la comune difesa dell’Occidente. Nella primavera 1946 il rapporto di un
emissario dell’OSS riassunse le confidenze del comandante del battaglione
Nuotatori-Paracadutisti della X MAS, Nino Buttazzoni: “I comunisti e quindi la
Russia, stanno guadagnando il controllo dell’Italia; i neofascisti sono un
forte bastione contro il comunismo e dovrebbe essere loro permesso di rientrare
nella vita politica italiana, per continuare a dare un contributo alla sconfitta
del comunismo”. Buttazzoni, ricercato per crimini contro i civili, fu arruolato
nei servizi americani […] Il diario del socialista Pietro Nenni annota il 25
maggio 1945: “Foscolo Lombardi mi riferisce di colloqui sollecitati da ex
fascisti. Smentiscono di essere monarchici, negano la partecipazione di Scorza
al movimento neofascista monarchico. Vorrebbero una dichiarazione nostra che
saranno reintegrati nella vita civile” […] Il dialogo tra comunisti e fascisti
partiva da lontano. Nell’estate 1936 l’Ufficio politico del PCI aveva
diramato il Manifesto per la
riconciliazione del popolo italiano, con l’appello “ai fratelli in camicia
nera”, funzionale al calcolo di staccare dal regime settori popolari insoddisfatti
per l’accantonamento degli ideali originari del fascismo […] Mutate le
contingenze politiche e trascorso un decennio, Giancarlo Pajetta scrisse nel
settembre 1945 sul quotidiano di partito l’Unità parole comprensive per i
“figli d’Italia” che “il terrore o l’acquiescenza o magari il traviamento hanno
portato nelle file dell’esercito di Graziani” […]
Togliatti rivelò nell’estate
1946 a una riunione dei quadri di partito di avere ricevuto, in apertura della
campagna elettorale per la Costituente, un memoriale redatto “da fascisti veri,
organizzati nella illegalità, documento che era stato fatto arrivare anche ad
Umberto di Savoia, nel quale si proponeva tanto a noi che a lui un patto”; il
patto era imperniato sull’amnistia. Il dirigente comunista promise la sua
disponibilità, convinto che la questione delle masse di italiani già aderenti
al regime fosse un problema reale e che attraverso la politica della mano tesa
si potessero conquistare o comunque influenzare ampi strati altrimenti esposti
a suggestioni monarchiche, qualunquiste o neofasciste. Dentro una simile
prospettiva si collocano iniziative come Il Pensiero Nazionale, giornale
fondato nel maggio 1947 dal mussoliniano di sinistra Stanis Ruinas con
finanziamenti comunisti. All’apertura verso la massa degli ex fascisti si
sommava la strategia della porta aperta agli intellettuali formati nelle
organizzazioni e nelle accademie littorie. Da un lato, l’adesione o il
fiancheggiamento al PCI consentivano agli ex fascisti di superare d’un balzo le
passate compromissioni, dall’altro rispondevano a canoni di egemonia culturale
della sinistra assai efficaci; ne è derivata una persistente reticenza sul
retroterra fascista di intellettuali divenuti nel secondo dopoguerra militanti
comunisti. I carteggi di Togliatti attestano scambi di opinioni e programmi di
lavoro con ex mussoliniani disponibili al lavoro in organismi politici e/o
sindacati filocomunisti. Il segretario generale del PCI superò prevenzioni e
chiusure di principio; l’incarico governativo lo aveva posto a stretto contatto
con personaggi già inseriti nelle istituzioni littorie e alcuni di questi erano
divenuti suoi collaboratori. Gaetano Azzariti, presidente del Tribunale della
razza dal 1938 a 1943, protagonista di una pagina tra le più infamanti del
fascismo, invece di pagare dazio per il suo passato, divenne ministro della
Giustizia nel primo governo Badoglio e nel 1945-46 consulente di Togliatti per
l’epurazione con l’incarico di capo dell’Ufficio legislativo del ministero di
Grazia e giustizia. Il guardasigilli, informato del suo passato,commentò: “Non
me ne importa, ho bisogno di un bravo esecutore di ordini, non di un politico”.
Un segno dei tempi. Secondo Italo de Feo, nel 1944-46 segretario di Togliatti,
il dirigente del PCI “si rese conto che si doveva pur chiudere il capitolo della
guerra civile che aveva devastato l’Italia e sarebbe stato meglio che il
capitolo fosse stato chiuso da lui, anziché da altri. Calcolava giusto: in quel
momento l’amnistia sembrò un atto di generosità verso i fascisti, data la
posizione di forza che avevano i comunisti nel governo, e serviva ad orientare
la fiducia di moltissimi italiani, ch’erano stati fascisti, verso il PCI che
assumeva, esso, una iniziativa di clemenza”. Conclusa la guerra, nel volgere di
pochi mesi il PCI si era trasformato da pattuglia di rivoluzionari
professionali in movimento imponente,
forte nel 1945 di un milione e ottocentomila iscritti, saliti a oltre due
milioni l’anno successivo; la concezione del “partito nuovo” concentrava la
propria sostanza politica nel concetto di partito di massa. Le nuove
opportunità suggerivano posizioni inedite e aperture spregiudicate, ovvero una
strategia di movimento. Era d’altronde evidente il fallimento dell’epurazione
[…] La nomina di un guardasigilli di estrema sinistra preoccupò la magistratura.
Togliatti – fedele in questo alla tradizionale visione classista – vedeva nei
giudici un baluardo del potere borghese. Nel discorso all’Assemblea
Costituente, a sostegno della giuria popolare in corte d’assise lo statista
comunista criticò lo “spirito giuridico reazionario che non siamo ancora
riusciti a cancellare” e lamentò la scarsa collaborazione ricevuta dai cultori
del diritto […] A inasprire l’emergenza giustizia vi era il sovraffollamento
delle prigioni […] La presenza di una forte aliquota di prigionieri politici
accresceva il rischio di rivolte carcerarie, tanto più che molti agenti di
custodia rimpiangevano il ventennio. Da fine 1945 alla primavera 1946 il
sistema penitenziario pareva sul punto di esplodere […] Una misura di clemenza
in grado di sfoltire il numero dei reclusi era opportuna anche soltanto per
esigenze di sicurezza. Con ciò non si può peraltro concludere che l’amnistia
fu, più che una misura politica, una necessità pratica imposta dall’emergenza
carceraria. A chiedere l’amnistia fu anzitutto Umberto di Savoia, con una mossa
che mise in difficoltà il governo De Gasperi. Assunte le funzioni di capo dello
Stato dopo l’abdicazione del padre Vittorio Emanuele III (9 maggio 1946), egli
espresse al presidente del Consiglio il desiderio di celebrare l’evento –
secondo tradizione – con un segnale conciliativo […] L’accoglimento della
proposta sarebbe parso un cedimento ai monarchici, nonché un sensibile
contributo alla loro campagna referendaria; il rifiuto avrebbe assunto
significati odiosi non solo per gli amnistiandi e per i loro parenti, ma per
l’opinione pubblica moderata in genere. D’altro canto, il vincitore del
referendum istituzionale indetto per il 2 giugno insieme all’elezione della
Costituente avrebbe comunque solennizzato la propria affermazione con la
concessione dell’amnistia. Una via d’uscita fu intravista da Togliatti sulla
falsariga del decreto promulgato da Vittorio Emanuele III dopo l’assunzione al
trono per la depenalizzazione dei reati sino ai sei mesi. Il guardasigilli portò
al Consiglio dei ministri una proposta di amnistia immediata per reati comuni e
militari, che l’articolo 1 estendeva a “tutti i reati pei quali la legge
commina una pena detentiva, sola o congiunta a pena pecuniaria, non superiore
nel massimo a sei mesi”; il secondo articolo escludeva dal beneficio i reati
sanciti dal decreto sulle sanzioni contro il fascismo […] Il decreto
sull’”amnistia delle contravvenzioni” (così la etichettarono i monarchici) fu
sottoposto alla firma di Umberto che, secondo le previsioni di Togliatti, non
lo promulgò, in quanto eccessivamente circoscritto, ma nemmeno lo poté
criticare poiché altrimenti avrebbe sconfessato l’impostazione paterna. Umberto
riunì i suoi consiglieri, tergiversò per alcuni giorni e alfine si schiuse in
un silenzio sdegnato […] Sventata in tal modo la manovra monarchica, il
ministro di Grazia e giustizia mise all’opera il suo ufficio legislativo […]
L’impostazione di Togliatti fu criticata dal Partito Repubblicano, secondo il
quale “compiere un atto di clemenza soltanto per i reati punibili con una pena
edittale non superiore ai cinque anni equivale ad escludere dal beneficio la
stragrande maggioranza dei condannati politici”; secondo il PRI bisognava
distinguere gli atti di effettivo collaborazionismo da comportamenti “che
furono soltanto la manifestazione di una fede politica”, per recuperare alla
vita civile molti giovani educati dal regime al culto della violenza e che
nell’immediato dopoguerra avevano ingrossato “le file dei movimenti reazionari,
dei nostalgici della Monarchia, non per fede o per convinzione ma perché temono
che la Repubblica li metta al bando, li escluda dalla grande famiglia
italiana”. Dell’amnistia avrebbero beneficiato pure i partigiani, secondo la
sollecitazione espressa al guardasigilli da Ferruccio Parri […] In pochi giorni
i funzionari ministeriali formularono il decreto, illustrato il 19 giugno dal
guardasigilli nei criteri generali […] Il vicepresidente del Consiglio Nenni
così riassunse la seduta: “Oggi Consiglio dei ministri per elaborare il testo
dell’amnistia. Tendenza di De Gasperi: “mettere fuori tutti i fascisti”;
tendenza di Togliatti: “mollarne il meno possibile”; due modi di intendere la
Repubblica” […]
L’esame articolo per articolo dello schema proposto dal
guardasigilli produsse tre misure significative: a) l’esclusione dai benefici
di legge dei responsabili di omicidio volontario, su proposta del ministro
Scelba; b) l’inclusione dei fascisti già colpiti da sanzioni, tranne gli alti
esponenti civili o militari e i responsabili di violenze particolarmente
efferate; c) la facoltà di rinunzia per gli imputati interessati
all’accertamento processuale della propria innocenza […] Le perplessità sul
rilevante spazio interpretativo concesso ai giudici furono respinte da valutazioni
ottimistiche sulla magistratura […] L’indomani, 22 giugno, si apportarono gli
ultimi cambiamenti […] A quel punto il testo venne firmato dal presidente del
Consiglio e dai ministri competenti. Il distacco con cui De Gasperi seguì le
due sedute decisive e la stesura dell’articolo 3 (determinante nel favorire i
fascisti più compromessi) da parte del guardasigilli comprovano la piena
paternità togliattiana del provvedimento, poi sconfessata per ragioni di
opportunità dalla propaganda comunista e attribuita a De Gasperi […] Sul
momento parve a tutti che si fosse trovata la quadratura del cerchio […] La
convinzione che vi fosse un abile bilanciamento tra la punizione dei principali
responsabili dei crimini fascisti e la clemenza verso la massa dei subalterni si
dileguò nel giro di pochi giorni, travolta dall’ondata di scarcerazioni
eccellenti […] Il testo dell’amnistia pubblicato il 23 giugno 1946
sull’edizione straordinaria della Gazzetta Ufficiale era introdotto dalla
relazione del guardasigilli che riconduceva il provvedimento alla necessità
“della riconciliazione e della pacificazione di tutti i buoni italiani”, nel
momento solenne della nascita della Repubblica. Il fenomeno collaborazionista
veniva inquadrato da Togliatti nelle circostanze generali che dopo l’8
settembre 1943 condizionarono il comportamento degli italiani schieratisi con
Mussolini a fianco dei tedeschi: l’abitudine ventennale all’obbedienza, il
ricorso alla coazione da parte della RSI, la difficoltà dei giovani a valutare
responsabilmente gli eventi. Il guardasigilli distinse i gregari dai dirigenti
politico-militari, raccomandò la comprensione verso la base e il rigore contro
i capi […] Erano esclusi sia i gerarchi sia “coloro che hanno nella esecuzione
o in occasione dei delitti commesso o partecipato a commettere uccisioni,
stragi, saccheggi o sevizie particolarmente efferate, oppure sono stati indotti
al delitto da uno scopo di lucro”. Avrebbero invece beneficiato dell’amnistia i
partigiani macchiatisi dopo la liberazione di “atti – anche gravi – commessi,
per una specie di forza d’inerzia del movimento insurrezionale antifascista,
anche dopo che i singoli territori erano passati all’Amministrazione alleata.
Questi gli auspici del ministro di Grazia e giustizia nella parte conclusiva
della relazione: “Tale è l’atto di clemenza che, approvato in un grave momento
della nostra vita nazionale, certamente contribuirà a creare nel Paese quel
nuovo clima di unità e di concordia che è il più favorevole alla ricostruzione
politica ed economica” […] Il decreto, generoso con i colpevoli di delitti
politici, era avaro con gli incriminati per reati comuni; dal punto di vista
tecnico appariva mal congegnato e forniva alla magistratura ampi spazi
interpretativi, con l’estensione della misura di clemenza – grazie alle
cosiddette “disposizioni di merito” – ai delitti contro la personalità dello
Stato, ai reati di strage, saccheggio e devastazione, alla guerra civile.
L’articolo 3 amnistiava gli atti rilevanti e il collaborazionismo, salvo che
essi fossero commessi da persone rivestite di elevate funzioni di direzione
civile o politica o di comando militare; tuttavia tali reati erano contestabili
ai soli dirigenti politici e militari. “Secondo la regola sono compresi
nell’amnistia tutti gli alti gerarchi, e secondo la eccezione ne sono tutti
esclusi!” commentò uno studioso. I magistrati, ravvisata l’incongruità delle
disposizioni, amnistiarono anche i maggiori gerarchi. Con una forzatura della
legge, una corrente di giuristi e una parte dei magistrati ritenne che
l’articolo 3 abrogasse ogni forma di collaborazionismo. Se in un primo momento
i giudici avevano ritenuto che l’assunzione di alte cariche comportasse la
responsabilità di atti rilevanti, poi distinsero tra cariche politiche e
tecniche, quindi negarono che l’esercizio di un’alta carica configurasse di per
sé reato: bisognava essersi comportati in modo fazioso, ma alla fine nemmeno la
faziosità comportò la punizione in quanto essa doveva avere rivestito una
rilevante efficienza causale nel mantenimento del regime […] L’attenzione di
Togliatti era concentrata sulle finalità politiche dell’amnistia, con la
pacificazione nazionale e il recupero dei fascisti al sistema democratico e
parlamentare […] Il 1° luglio 1946 De Gasperi rassegnò le dimissioni dell’esecutivo
a Enrico De Nicola, neoeletto capo provvisorio dello Stato; bisognava varare
una compagine ministeriale rispettosa degli esiti del referendum e delle
elezioni politiche. Nell’interregno tra il primo e il secondo governo De
Gasperi le energie di Togliatti furono assorbite dalla scottante questione
dell’amnistia politica. Preoccupato dall’intensità delle proteste popolari il
ministero di Grazia e giustizia dispose un’indagine statistica sulle
scarcerazioni. Una nuova circolare telegrafica raccomandò l’attuazione
dell’amnistia ai partigiani, come se fino a quel momento si fossero adottate
interpretazioni a senso unico […] Il ministro non sarebbe più stato “notiziato”
sull’applicazione dell’amnistia, poiché il 13 luglio 1946, col varo del secondo
governo De Gasperi, il dicastero della Giustizia passò di mano […] Un commento
a caldo di Ernesto Rossi (imprigionato dal 1930 al 1939 e poi confinato fino al
1943) a Gaetano Salvemini esprime scetticismo sulle ripercussioni dell’atto di
clemenza, grazie al quale erano usciti delle prigioni “quasi tutti i gerarchi
fascisti”: “Per me non è una dimostrazione di forza della repubblica ma una
dimostrazione di imbecillità e di incoscienza dei repubblicani. L’esercito, la
diplomazia, le prefetture, le questure sono nelle mani dei fascisti e dei
monarchici che hanno ancora tutti i quattrini, le terre, le case messe insieme
nel ventennio mussoliniano. Adesso hanno messo in circolazione i gerarchi
fascisti…” […] L’associazionismo partigiano considerò l’amnistia come uno
schiaffo, ovvero il disconoscimento dei valori sottesi alla battaglia militare
di ieri e all’azione politica del momento. I dirigenti del reducismo
resistenziale adottarono posizioni intermedie tra l’accettazione del
provvedimento e la protesta per le sue dimensioni inusitate. Il governo
ricevette una quantità di mozioni approvate da sodalizi legati al movimento di
liberazione. A muoversi con maggiore tempestività furono le associazioni che
raggruppavano le vittime della dittatura […] La stampa filopartigiana reagì
indignata, con toni oscillanti tra la delusione e lo sdegno, con punte di
esasperazione per il raffronto tra la condizione dei repubblichini, liberati
“con tante scuse”, e la difficile situazione di tanti reduci del movimento
resistenziale, privi di lavoro e di risorse nonostante avessero rischiato la
vita nella guerra di liberazione. La valanga di scarcerazioni in alternativa a
lunghe pene detentive induceva rattristanti considerazioni […] A protestare non
furono solo comitati di partigiani, ma pure assemblee operaie di grandi
fabbriche e organismi sindacali delle più svariate categorie […] Finché
delusione e frustrazione si sfogavano in appelli e mozioni, tutto sommato le
autorità non avevano motivo di preoccupazione; pesava tuttavia il rischio che
alcuni ex partigiani, esacerbati dal ricordo dei compagni uccisi, passassero
all’azione diretta […] L’obiettivo di determinare la pacificazione nazionale,
principale giustificazione dell’amnistia, fallì. Si ebbe anzi l’effetto
opposto. La sensazione di grande ingiustizia provocata dalla scarcerazione di
famigerati seviziatori e assassini – diffusasi rapidamente nelle popolazioni
settentrionali, con le amplificazioni intuibili – riaccese gli animi e provocò
il ritorno a violenze di massa simili a quelle attuate all’indomani della
liberazione. Tra l’estate e l’autunno del 1946 si verificarono vari tentativi
di linciaggio in processi a imputati di omicidio plurimo, di cui si dava come
probabile la liberazione […] Lo sdegno per la liberazione di grandi e piccoli
gerarchi spinse frange estreme del partigianato ad azioni clandestine, per
assicurare con la violenza la giustizia negata dai magistrati. Questa finalità,
giustificata idealmente come solidarietà alle vittime dei fascisti, segnò
l’esperienza della Volante Rossa, formazione paramilitare sorta come servizio
d’ordine della Federazione comunista milanese e trasformatasi – dopo l’amnistia
Togliatti – in nucleo armato per l’uccisione di ex repubblichini […] L’ultimo
impegno da ministro di Togliatti fu, nel pomeriggio del 4 luglio 1946 (il
governo era dimissionario da alcuni giorni), l’incontro con una delegazione di
familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine, composta da persone affrante dal
dolore, indignate contro il dirigente comunista considerato – a torto o a
ragione – diretto responsabile della liberazione di personaggi che avevano
collaborato con i tedeschi per la terribile rappresaglia del 24 marzo 1944 […]
Un mese più tardi Togliatti inserì quell’incontro nel novero delle
“manifestazioni incomposte” cui la base comunista si era abbandonata per “un
eccesso di nervosismo”. L’esasperazione di chi aveva perduto uno o più parenti
per mano dei collaborazionisti suggeriva ritorsioni elettorali […] Nell’estate
1946 i dirigenti del PCI concentrarono i loro sforzi sul versante organizzativo
e si confrontarono con la parte attiva del partito in riunioni su base
regionale; si trattava di consolidare il dato degli oltre due milioni di
iscritti e di preparare i militanti alle asprezze dell’impegno politico
quotidiano. Togliatti tenne alcuni “rapporti” negli incontri preparatori della
Conferenza nazionale d’organizzazione e analizzò le priorità politiche del
momento. La trascrizione di quei discorsi, non destinata alla pubblicazione,
dimostra come l’amnistia avesse creato una frattura tra vertice e base del PCI
[…] Condoni e amnistie non impedirono ai magistrati di inquisire in stato
d’arresto diverse centinaia di partigiani, accusati dalle famiglie dei fascisti
di assassinio (omicidio comune, senza alcun rapporto diretto con la resistenza)
o di reati contro la proprietà (il sequestro di viveri operato dalle bande fu
equiparato al furto e il prelievo di denaro all’estorsione). Alla stessa
stregua, la cattura di collaborazionisti fu ritenuta sequestro di persona. Vi
era inoltre la questione delle armi detenute dopo la Liberazione e, fattore di
ben maggiore gravità, l’uccisione di fascisti dopo la cessazione dei
combattimenti […] Dinanzi al problema dell’epurazione i tre maggiori partiti
politici assunsero linee di condotta diverse. I democristiani si attennero a
criteri moderati, di freno dei provvedimenti contro i fascisti e a favore del
loro rapido reinserimento nella vita civile; i socialisti e ancor più gli
azionisti propugnarono misure drastiche, con la punizione esemplare dei
responsabili di delitti politici e militari; i comunisti oscillavano tra le
posizioni draconiane della base e la linea ufficiale di cauta mediazione,
condizionati dal fatto che l’amnistia era direttamente riconducibile al loro
leader […] Appena emanata l’amnistia alcuni gerarchi latitanti o imprigionati
ricercarono l’appoggio di influenti prelati vaticani, i quali presentarono a De
Gasperi le ragioni dei loro protetti […] Il presidente del Consiglio teneva nel
debito conto le raccomandazioni delle gerarchie ecclesiastiche, ma non per
questo rinunziava alla riaffermazione delle ragioni di fondo dell’antifascismo,
tanto che a metà agosto 1946 ricordò ai prefetti che “l’amnistia ha voluto fare
la pacificazione politica e sociale, ma che l’atto di clemenza non implica
giustificazione e benché non si intenda giudicare la coscienza del singolo, è
lecito affermare che il sistema di Governo e lo spirito fascista hanno creato
nel Paese tale disastro e ci hanno inferto tali colpi nel mondo internazionale
che tollerarne la ripresa costituirebbe gravissimo errore per lo Stato
democratico e, nei confronti dell’estero, una compromissione altrettanto grave”
[…] L’applicazione indifferenziata dell’amnistia sortì l’effetto di chiudere
fascisti e antifascisti in una spirale di avversioni e ritorsioni, in luogo di
favorire un’apertura e un’intesa tra gli appartenenti a due schieramenti
politici che, nell’Italia del dopoguerra, si trovavano al bivio tra disarmo
reciproco o prosecuzione della lotta in nuove forme […] I reduci della RSI
restituiti alla vita pubblica ed eletti al Parlamento nelle liste del MSI (col
simbolo della fiamma tricolore sprigionata dalla bara di Mussolini) furono, per
quella sola circostanza, riconoscenti a Palmiro Togliatti, ricordato
benevolmente da Giorgio Almirante, protagonista delle vicende del neofascismo
per un quarantennio di vita repubblicana […] Junio Valerio Borghese, sottocapo
di stato maggiore della Marina e comandante della X Flottiglia MAS, impersonava
il lato corsaro dello schieramento di Salò. Animato da esasperato patriottismo
e forte spirito di corpo, egli non si definiva fascista, sosteneva di restare
al fianco dei tedeschi finché ciò fosse compatibile con gli interessi
dell’Italia e di combattere i partigiani solo se da questi attaccato. In realtà
egli accettò l’inglobamento di Trentino, Veneto e Friuli Venezia Giulia nella
zona amministrata direttamente dai nazisti e, sul terreno della repressione
antiresistenziale, si macchiò con i suoi reparti di episodi efferati.
Nell’ultima fase della guerra schierò la X MAS a difesa dei confini orientali,
in funzione antiiugoslava, e stabilì contatti riservati con i servizi
anglo-americani; Borghese guardava oltre l’orizzonte bellico e prefigurava
alleanze ibride in prospettiva anticomunista. I rapporti con l’intelligence
statunitense gli valsero la salvezza in cambio della disponibilità alla
collaborazione, sottraendolo alla giustizia sommaria dei partigiani milanesi;
travestito da tenente americano, salì sulla Jeep condotta dal capo dell’OSS James
Angleton fino a Roma. Imprigionato a Forte Boccea, l’imputato doveva essere
giudicato dalla CAS di Milano ma, forse per rispetto dell’intesa stipulata al
momento della consegna, il processo slittò e nel maggio 1947 la Cassazione
accolse il ricorso della difesa e trasferì la competenza dal tribunale di
Milano, considerata sede ostile, alla Corte d’assise di Roma. Prosciolto in
fase istruttoria da 43 fucilazioni effettuate da reparti della X MAS (mancava
la prova della partecipazione del comandante al reato), fu rinviato a giudizio
per collaborazionismo e per 8 uccisioni da lui ordinate. Quel processo è stato
considerato una farsa: presiedeva la Corte d’assise un amico della famiglia
Borghese e vecchio gerarca; inoltre nel collegio giudicante sedevano ex fascisti
notori. L’assise romana ritenne l’imputato colpevole di collaborazionismo
militare e di concorso nella fucilazione di otto partigiani; la condanna –
pronunziata il 17 febbraio 1949 – tenne conto delle diminuenti per valorosi e
delle attenuanti generiche: 12 anni di reclusione; letta la sentenza, il
presidente si accorse di avere sbagliato il computo degli anni di pena, in
relazione alla carcerazione preventiva, e pur di liberare il comandante della X
MAS riportò la cote in camera di consiglio per apportare le modifiche del caso,
a costo di commettere una grave irregolarità poiché dopo la lettura la sentenza
non può essere modificata dallo stesso tribunale che l’ha emessa. Una
conclusione così mite e per di più in violazione delle procedure di legge suscitò
forti polemiche sia in Parlamento sia nel Paese […] Tornato libero, il
“principe nero” si ritagliò per un trentennio un ruolo rilevante nel
neofascismo, come capofila di trame antidemocratiche con velleità golpiste;
fondato nel 1968 il Fronte Nazionale, l’8 dicembre 1970 l’ex comandante della X
MAS effettuò un tentativo (abortito) di colpo di Stato […] Il raffronto col
dato europeo serve alla contestualizzazione e alla comprensione di quanto è
avvenuto in Italia durante la fase compresa tra la fine dell’occupazione
tedesca e il ritorno alla normalità, dopo le vendette del dopoguerra. In
assenza di dati certi, le vittime fasciste possono essere stimate tra le 12.000
e le 15.000; le violenze furono più gravi a Torino e nel milanese […] I
processi per collaborazionismo riguardarono circa 43.000 cittadini, 23.000 dei
quali amnistiati in fase istruttoria e 14.000 liberati con formule varie; i
condannati in via definitiva furono 5.928 (334 in contumacia), la pena
capitale, inflitta a 259 imputati, ebbe esecuzione in 91 casi. Dell’impatto
combinato di amnistia, indulto e grazia beneficiarono 5.328 fascisti […] Il 25
gennaio 1952 Mario Scelba intervenne al Senato sull’epurazione per sottolineare
la particolarità del caso italiano rispetto agli altri Paesi europei; il
ministro dell’Interno accennò alla situazione belga, con 5.000
collaborazionisti ancora nelle prigioni e molti altri in esilio, mentre da noi
i fascisti incarcerati erano 442. Nel corso dell’anno intervennero ulteriori
misure di clemenza. Al 25 dicembre 1952 – secondo il ministero di Grazia e
giustizia – era “da escludere che vi siano stati condannati per
collaborazionismo i quali abbiano interamente espiato la pena loro inflitta.
Rimanevano in carcere 266 detenuti (119 scontavano la condanna e 47 si trovavano
sotto giudizio); i 334 latitanti si erano in gran parte rifatti un’esistenza in
America Latina, asilo ospitale per tanti nazifascisti, aiutati nell’espatrio
clandestino oltreoceano da sodalizi segreti e accolti ospitalmente a Buenos
Aires dall’industriale Vittorio Valdani, già dirigente della componente
fascista della comunità italiana e fautore della RSI (nel dopoguerra Caldani
ottenne significativi riconoscimenti: la nomina a cavaliere del lavoro nel 1954
e l’incarico di promotore dei festeggiamenti al presidente Gronchi, giunto a
Buenos Aires nel 1961 in visita di Stato).
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da Mimmo Franzinelli, L'amnistia Togliatti, 2006 Mondadori