L’anno
che va dalla morte di Tobagi (28 maggio ’80) all’arresto di Moretti (4 aprile
’81) è tra i meno chiari della storia delle BR. Matura la separazione che si
consumerà subito dopo tra l’Esecutivo e la colonna Walter Alasia. Emerge il
problema degli infiltrati. Moretti appare rassegnato alla fine della parabola
iniziata tre anni prima (con la scoperta del covo di via Gradoli e la
“trattativa” con i servizi). Nell’aprile ’80, mentre si prepara l’attentato a
Tobagi (l’Arma lo apprende da un infiltrato), la stampa dà notizia di un’altra
infiltrazione: si tratta della confessione del brigatista Marino Pallotto (12
aprile) che fa arrestare membri di un gruppo armato di cui fa parte e che è
collegato alla colonna romana delle BR, operante a Monte Mario. Entratovi alla
fine del ’78, vi aveva trovato Paolo Santini, arrestato con lui il 28 dicembre
’79. il 9 gennaio Santini “dichiara al giudice di aver agito su incarico dei
carabinieri del nucleo operativo di Roma. Sostiene di aver sempre informato il
colonnello Cornacchia. La sua versione è confermata dal colonnello, per cui il
giudice ne ordina la scarcerazione”. Il colonnello, comandante del nucleo
investigativo di Roma, è iscritto alla P2; è tra i primi ad accorrere in via
Fani, partecipa alle indagini, nel ’79 compie i primi accertamenti
sull’omicidio Pecorelli, ammetterà davanti alla Commissione Moro di disporre di
un infiltrato nelle BR, forse lo stesso Santini, in realtà facente parte di un
gruppo fiancheggiatore. Pallotto si suicida in carcere, Santini è in libertà,
negli stessi giorni l’Arma dispone di un altro infiltrato nel gruppo che sta
per uccidere Tobagi: Rocco Ricciardi, postino a Varese, confidente dal 24 marzo
’79. egli ammetterà di essere un confidente, di aver fatto arrestare militanti,
di aver preannunciato l’omicidio di Guido Galli ma non quello di Tobagi. Si
permetterà di criticare “leggerezze sul mio conto anche da parte dell’onorevole
Scalfari che ha fatto il mio nome in Parlamento, esponendomi a rappresaglie e
mettendo così in pericolo anche i miei familiari”. Ma che abbia informato
sull’omicidio è ampiamente documentato. I precedenti delle infiltrazioni
risalgono alle Formazioni Comuniste Combattenti, dalle quali deriva la “Brigata
28 marzo” (la data di via Fracchia), guidata da Marco Barbone (“Barboncino”).
Le FCC erano state fondate da Alunni, col quale collaborava il ventenne
Barbone. Dopo l’arresto di Alunni (settembre ’78), che il gruppo abbia potuto
tranquillamente operare a Milano – dove le forze di sicurezza erano state in
grado di colpire ininterrottamente il partito armato, dai giorni di Feltrinelli
alla distruzione della colonna BR nel maggio ’72 – lascia supporre che fosse
comunque sotto controllo. Si tratta di un gruppo raccogliticcio, che Barbone
descriverà così: “Marocco, Felice e la sua ragazza, Zanetti, Balice, un suo
amico di Saronno, la moglie di Balice, Bellerè, De Silvestri, Gianni, un amico
di De Silvestri, Rocco (il postino), Brusa e la sua ragazza di cui ignoro il
nome, le sorelle Zoni, un certo Pranzetti, Colombo, Marchettino di Varese,
Bartisaldo e sua moglie, Piroli, Belloli Maria Rosa, un amico di Gianni, amico
di De Silvestri”, oltre alla sua fidanzata Caterina Rosenzweig, che Barbone non
cita. Da questo gruppo di “amici”, “ragazze” e “mogli” esce il gruppo (Mario
Marano, Paolo Morandini, Daniele Laus, Manfredi De Stefano e Francesco
Giordano) che il 7 maggio ferisce a casa sua il giornalista della Repubblica
Guido Passalacqua; e il 28, dopo essersi appostato per ore in una via presso il
carcere di San Vittore (zona quindi percorsa da macchine della sicurezza),
uccide Tobagi, dando luogo a uno degli episodi di lotta armata più gravidi di
dubbi e polemiche (per supposti mandanti nel mondo giornalistico, per una
elaborata rivendicazione ricavata dalla rivista specializzata Ikon,
difficilmente attribuibile a quel gruppo di spostati). Tra l’infiltrazione che
precede l’omicidio Tobagi (con le citate caratteristiche che ne fanno un
episodio particolare della lotta armata) e quella che porta all’arresto di
Moretti, si colloca un periodo di difficoltà e anche di oscurità per le BR
travagliate dai dissensi interni, anche per il ruolo di sempre maggior rilievo
di Giovanni Senzani […] Dopo l’eco suscitata dall’omicidio Tobagi (maggio) e
prima del sequestro D’Urso (dicembre), l’estate e l’inizio dell’autunno
trascorrono senza eventi di rilievo, sino agli omicidi milanesi a opera della
Brigata Alasia sempre più autonoma. Si è visto il duro colpo infilitto alle
colonne di Torino (arresto di Micaletto) e di Napoli (cattura di Seghetti e
Nicolotti). Questa la situazione di Genova, dopo via Fracchia e mentre sparisce
Livio Baistrocchi, uno dei fondatori: “la strage di via Fracchia provoca
un’esplosione ritardata. Decine di giovani sull’onda dell’emozione chiedono di
entrare nelle BR e Lo Bianco, rimasto solo a guidarle, li accetta. ‘Ai primi
arresti’ dice Fenzi, ‘arrivano in questura le madri, abbracci e baci con i
ragazzini piangenti, l’invito materno subito raccolto a vuotare il sacco e in
pochi giorni finirono tutti in galera’, le BR genovesi erano finite per
sempre”. Francesco Lo Bianco era “rimasto solo” dopo l’arresto di Fulvia
Miglietta e Gianluigi Cristiani. Che Fenzi, appena assolto, entri in
clandestinità nel giugno ’80, proprio mentre ritiene “finite per sempre” le BR
genovesi, è un’altra stranezza del periodo che può essere valutato attraverso
una lunga riflessione postuma di Moretti. Ma prima va segnalato un episodio del
tutto isolato, che movimenta a sinistra la peraltro relativamente tranquilla
estate ’80, e che sarà eclissato dalla strage di Bologna (2 agosto). Il 25
luglio vengono rapiti a Barberino d’Elsa dov’erano in vacanza, Suzanne e Sabine
Kronzucker, figlie di un amico di Franz Joseph Strass, il potente leader
dell’Unione cristiano-sociale bavarese, ministro della Germania Federale, e il
loro cuginetto Martin Waechtler. L’azione viene rivendicata da un gruppo che
così si presenta: “Dalla base mobile operativa toscana intitolata al grande
compagno Antonio Gramsci, Chaka II, capo dell’anonima sequestri operante in
tutta l’Italia centrale elenca i mandanti della strage nazifascista messa in
atto alla stazione di Bologna il 2 agosto [seguono i nomi di alcuni leader DC].
Chaka II creerà una nazione sarda, una seconda Cuba nel Mediterraneo,
basteranno un migliaio di uomini, di veri sardi, a sconfiggere i colonizzatori
sardi”. Il gruppo, guidato da Mario Sale, ottiene la pubblicazione del comunicato
e probabilmente un riscatto. Rilascia i sequestrati e continua la sua attività
senza implicazioni politiche. L’evocata strage di Bologna contribuisce, in
quell’estate, a spostare l’attenzione dalla lotta armata di sinistra al
cosiddetto terrorismo nero e stragista. Ovviamente Moretti non accenna a Chaka
II ma neanche all’omicidio Tobagi, quando fa il punto della situazione, a
partire da giugno e sino alle iniziative autunnali della Alasia: “Fenzi aveva
partecipato alla stesura del famoso ‘documentone’. Appena fuori si avvede di
colpo che una cosa è quel che immaginavano dentro e un’altra la realtà. Che non
stessimo viaggiando sulla cresta dell’onda videro bene anche Marina Petrella e
Luigi Novelli, usciti anch’essi di prigione in quel periodo e inseriti nella
colonna romana. Con Fenzi ci intendiamo bene, discutiamo del ‘documentone’, ne
recuperiamo gli elementi d’analisi che erano i soli utilizzabili. La Walter
Alasia non ci sta, vuole fare subito. Sono compagni arrivati tardi, ultimi,
nelle Brigate Rosse, come De Maria, Betti e Alfieri e non hanno tutti i torti,
la situazione all’Alfa Romeo è tale che non possiamo stare a guardare, siamo
fermi da troppo tempo e rischiamo di essere assenti come alla FIAT nel momento
cruciale. Mettiamo in cantiere assieme due azioni, individuando un dirigente
dell’Alfa, Manfredo Mazzanti e uno della Marelli, Renato Briano. Ma come
colpire… ci stiamo lavorando quando il gruppo milanese forza i tempi,
colpisce”, uccidendo Briano il 12 novembre e Mazzanti il successivo 28. si può
rilevare come le BR in difficoltà siano agevolate da inopinati rilasci (Fenzi,
Petrella, Novelli), mentre ai servizi non mancano informazioni su Pasqua Aurora
Betti, citata fin dal ’70-71 in un documento trovato nella base di Mediglia
(“Pippo o della lucida follia”: Pippo sarebbe Franco Piperno). Anche il giudice
Calogero nella sua istruttoria nel parla: “Fra le persone citate Toni Negri e
Aurora. Nelle agende di Negri del 1973 e 1974 è più volte citato il nome di
Aurora. Il numero telefonico accanto al nome di Aurora è di una persona che ha
dato ospitalità a Milano a tale Betti Aurora di Roma, la cui identificazione
non è mai avvenuta”. Quanto alla posizione della Alasia, Vittorio Alfieri la
sintetizza così: “Agnelli ha fatto piazza pulita. All’Alfa la direzione rimanda
lo scontro. Una proposta passa perché avevamo organizzato gli operai della
catena, quelli che sostenevano la piattaforma alternativa. Avevamo
letteralmente spostato il PCI organizzato e vinciamo questa assemblea. Vinciamo
con l’assemblea generale dopo aver fatto una serie di interventi, tra cui il
mio. Era questo il lavoro che si faceva, la militanza dei compagni delle BR; ed
era questo il rapporto che si stabiliva con gli operai. Non aveva importanza di
dover dire di essere delle BR. Dalla presenza capillare nel movimento di massa,
in quello rivoluzionario di Milano, c’era che le BR diventassero un complessivo
punto di riferimento, che unificasse movimenti che si esprimevano nei
quartieri, ospedali, fabbriche, attorno a una strategia di potere. Non dunque
attorno alla forma di lotta della lotta armata, ma a un programma politico. Le
BR dovevano diventare qualcosa di diverso da quello che fino allora avevano
rappresentato. Nel settembre ’80 mi licenzio e decido di lavorare a tempo pieno
per dare continuità al lavoro politico, a questa esperienza autonoma della
Alasia. Per ciò che stava succedendo alla FIAT era per noi necessario dare una
risposta allo stesso livello di attacco feroce. Abbiamo colpito due simboli,
Briano e Mazzanti. Bisogna spiegare quanto sia stato simbolico da parte dello
Stato l’uccisione premeditata di due compagni che a Milano sono morti, in
particolare Walter Alasia, nato con me. È anche lui di Pero. Ha vissuto la mia
stessa esperienza. Sin da bambini andavamo a fare i chierichetti”. I
“frammenti” – tutti – danno un quadro del periodo: le BR sono stremate, a Roma
si riorganizzano attorno ai rilasciati, a Napoli con Natalia Ligas e Antonio
Chiocchi, a Milano dispongono ancora di un insediamento in fabbrica con ex
chierichetti che pensano alla “ferocia” come valore simbolico, che fondono le
esperienze delle prime BR (rivendicazioni operaie) e delle seconde (sparare per
uccidere), ma in una realtà sociale del tutto mutata. Maturano contrasti di
fondo. Temporaneamente la strategia si ricombatta attorno al problema
carcerario, per stimolo di Senzani. Le forze di sicurezza controllano
attraverso rilasci e informative (casi Petrella, Novelli e Betti); il PCI è
ormai lontano dal governo, ma la situazione non è stabilizzata (ottobre-novembre
’80: secondo scandalo dei petroli, terremoto in Irpinia). È in questo contesto
che parte l’operazione D’Urso […] Il 12 dicembre, anniversario di piazza
Fontana, le BR sequestrano il responsabile della gestione delle carceri presso
il ministero di Grazia e Giustizia, il magistrato Giovanni D’Urso. Le BR, allo
stremo e alle strette, ma tollerate dai servizi, sembrano ancora dominare la
scena politica nazionale. Lo scopo è migliorare le condizioni dei militanti
detenuti, “perché li stanno massacrando e perché siamo molto forti dentro le
carceri speciali” (sembra una contraddizione). La richiesta precisa sarà la
chiusura dell’Asinara, rimasto ormai aperto solo per pochissimi brigatisti. È
in gioco la vita di D’Urso, il governo è preoccupato perché la magistratura
lamenta le sue troppe vittime (oltre a quelle della lotta armata di sinistra
qui registrate, vi sono altre della destra armata, da Vittorio Occorsio nel
luglio ’76 a Mario Amato, nel giugno ’80). Il ministro della Giustizia, Alfonso
Sarti (DC, iscritto alla P2) alla vigilia di Natale chiude l’Asinara
(affermando che era un provvedimento deciso da tempo, d’accordo con Dalla
Chiesa). Il 28 dicembre scoppia una rivolta nel carcere speciale di Trani, i
detenuti catturano diciotto guardie, ma il 29 le forze speciali del GIS (Gruppo
di Intervento Speciale) riconquistano il carcere. In risposta a quello che
definiscono “il massacro di Trani” le BR uccidono a Roma, il 31 dicembre, il
generale dell’Arma Enrico Galvaligi, responsabile, dopo Dalla Chiesa,
dell’Ufficio coordinamento carceri. Per D’Urso si tratta. I brigatisti chiedono
la pubblicazione dei loro comunicati e consultazioni dei detenuti. Socialisti e
radicali mediano, i primi pubblicando i testi BR sull’Avanti, i secondi
visitano, coi loro parlamentari, le carceri di Trani e Palmi, per consentire
assemblee nelle quali ci si orienta per liberare D’Urso. Si pronunciano in
questo senso Eleonora Moro e Stella Tobagi, vedova di Walter. Quando le BR
chiedono che la TV pubblica trasmetta i loro comunicati, i radicali mettono a
disposizione il loro spazio a Tribuna Politica perché la figlia del magistrato
legga un testo nel quale il padre è definito “boia”: la decisione suscita
indignazione nel ricostituito “partito della fermezza”, dalla DC al PCI (ma anche
Eugenio Scalfari permette la pubblicazione sull’Espresso dei verbali degli
interrogatori di D’Urso forniti dalle BR). Il 15 gennaio il magistrato viene
liberato. È un grande successo delle BR, i cui limiti saranno poi così
registrati da Moretti: “Progettiamo una campagna che considero il capolavoro
politico della BR. Riusciamo a dividere la magistratura, che non vuole più
immolarsi. Il fronte della fermezza mostra qualche crepa. Chiediamo la chiusura
dell’Asinara e la otterremo. D’Urso verrà liberato poche ore dopo la lettura di
un comunicato dei prigionieri di due carceri speciali, Trani e Palmi. Abbiamo
vinto, la sensazione è che si sta risalendo. È stato un capolavoro di
guerriglia ma si rivelerà ingannevole. Dovrebbe essere un paradigma e si rivelerà
invece una perfetta opera d’artigianato, così particolare da restare un pezzo
unico, non si ripeteranno più le modalità politiche che, sperimentate con
successo nel caso D’Urso, ci sembravano risolutive. Se fossi presuntuoso, direi
che è andata così perché dopo qualche mese sono stato arrestato e sono stati
altri a dirigere l’organizzazione, ma sarebbe una bugia. Quel successo non era
indicativo di una possibilità di trasformazione della guerriglia, esprimeva
quel che avveniva, un corpo sociale in maturazione rimaneva del tutto fuori
dalle sue possibilità”. Moretti non è presuntuoso però è un po’ vago. In
realtà, anche dopo il suo arresto, le BR sembrano all’offensiva, con ben
quattro rapimenti in contemporanea, tra aprile e i primi di giugno. Ci si deve
chiedere come il partito armato possa apparire grandeggiante quando è ridotto a
“quattro gatti”, come afferma lo stesso Moretti nel quadro di una descrizione
dei rapporti con la Alasia, per recuperare o sostituire la quale conclude la
sua carriera di inafferrabile: “Ho gestito tutte le discussioni per mesi, per
anni, con uno scrupolo da far invidia a un democraticista inveterato,
convocando la direzione strategica ogni volta che veniva richiesta, rassegnando
le dimissioni ogni volta che lo chiedevano. Anche se sapevo che i problemi,
quando sono della dimensione di quelli che avevamo noi dopo Moro, non li
risolvi in quel modo. Non espello l’Alasia, non espello nessuno, figuratevi se
espello qualcuno, eravamo quattro gatti. Il mio sforzo disperato è di tener tutti
assieme. Sapevo che una divisione delle BR sarebbe stata la fine… Ci divide il
fatto che la Walter Alasia comincia a far azioni per conto suo”. Ciononostante,
Moretti tenta un recupero: “Cercavo di ritessere dei fili a Milano. I compagni
della Walter Alasia se ne erano andati per i fatti loro, facendoci perdere un
punto di forza. E le Brigate Rosse non potevano rinunciare a Milano, non è
questione di potere o di concorrenza fra i gruppi, avevamo sempre saputo che se
per qualche ragione ce ne fossimo andati da Milano e dalle fabbriche, avremmo
smesso di esistere per quanto forti fossimo altrove. Nell’inverno del 1981 a
noi non restava che riprendere i vecchi contatti in città con i compagni. Di
regolari andammo a Milano Enrico Fenzi, Barbara Balzerai e io […] Per un super
ricercato era un’imprudenza imperdonabile cercare i primi contatti. Questo è il
lavoro tipico degli irregolari. Ma in quel momento a Milano questa rete s’è
inaridita, siamo debolissimi e benché sia una pazzia i primi contatti li cerco
io. E così in uno dei contatti che, dopo la prima volta, avremmo scartato,
Fenzi e io cadiamo in una trappola tesa dalla polizia e veniamo arrestati” […]
Va ricordato che Moretti è nella situazione conseguente il sequestro Moro. Ha
trattato per le “carte”, è rimasto un rivoluzionario, ma sa di essere
controllato. Le BR sono ridotte a “quattro gatti”. Probabilmente corre il
rischio che descrive perché pensa che lo si lasci ancora operare, che chi punta
sulla destabilizzazione apparente abbia ancora bisogno delle “sue” BR.
Evidentemente non è così. Il sequestro D’Urso è stata la sua ultima impresa. Il
suo posto sta per essere preso da Giovanni Senzani, che è uscito allo scoperto,
è entrato in clandestinità proprio col sequestro D’Urso, e appare ora il leader
capace di interessarsi dei militanti detenuti con maggiore impegno di Moretti.
Arrestato il capo, Senzani arriva al vertice dell’organizzazione, che si sta
dividendo, ma in una forma di separazione consensuale (come era avvenuto nel
’74 con Alunni e le sue FCC). È ancora col nome collettaneo delle BR che
verranno gestiti i quattro sequestri che a metà del 1981 presentano ancora
l’Italia come un Paese instabile, mentre con la regia o la copertura dei
servizi si prepara la svolta politica che completerà l’isolamento del PCI e che
sarà accelerata dal sequestro Dozier. Gli eventi che porteranno all’arresto di
Moretti iniziano nell’agosto 1980, secondo il racconto di Giorgio Bocca: con un
dibattito nel quale Fenzi viene accusato di essere “un servo di Moretti”, mentre
Aurora Betti piange “cosa piuttosto imbarazzante tra rivoluzionari”, dopo una
rottura per cui “nel tentativo di rimettere comunque in piedi un nucleo BR
milanese Moretti entra in contatto con un certo Longo, un malvivente
tossicodipendente che fa da informatore alla DIGOS di Pavia. Moretti e Fenzi
vengono pescati mentre vanno a un appuntamento con la spia. Renato Longo riesce
dove gli uomini di Dalla Chiesa hanno sempre fallito”. In realtà Moretti è
controllato, e non è credibile che voglia riorganizzare le BR partendo da un
tossicodipendente. Le vere modalità della cattura non verranno mai accertate,
anche se al momento “lo stesso ministero dell’Interno espresse con un attestato
di merito il riconoscimento ai due esperti funzionari pavesi Cera e Filippi”;
quest’ultimo verrà poi inquisito per favoreggiamento e in occasione del
processo di primo grado tenutosi a Pavia, il giornalista Giorgio Micheletti
giunge a questa conclusione: “Il processo Longo-Filippi è stato definito il
processo dalle molte verità e dove i veri imputati non erano presenti: la
sentenza non fa che concludere il primo atto di questa vicenda che forse non
verrà mai chiarita del tutto”. Una valutazione che non cambia a vent’anni di
distanza e nonostante un singolare scambio di battute al processo Moro ter.
L’avvocato Pino De Gori, legale della DC, costituitasi parte civile, chiede a
Morucci: “Ma Moretti chi se l’è venduto?” Sorpresa in aula. Morucci è un po’
meno sorpreso: “Ma lo si sa benissimo…” Il legale che ha posto la domanda
riaffaccia poi, nelle pause del processo, il sospetto che nella cattura di
Moretti ci sia lo zampino dei servizi segreti israeliani, scontenti che Moretti
avesse risposto negativamente al alcune loro offerte. Ma si tratta di pure
supposizioni.
De Gori è lo stesso legale che sostiene: “Per noi la prigione di
Moro era al centro, nella zona compresa fra piazza del Gesù, sede della DC, via
delle Botteghe Oscure, sede del PCI, il quartiere ebraico, cioè il ghetto, e il
ministero di Grazia e Giustizia, nella quale si trova via Caetani dove Moro è
stato ritrovato. È sempre rimasto lì intorno. I brigatisti non avrebbero mai
corso l’altissimo rischio di superare, con Moro cadavere in macchina, il
cordone sanitario di polizia e carabinieri presente giorno e notte in quella zona
del centro”. Come si vede, è una fonte qualificata che permette di mettere in
relazione l’arresto (“vendita”) di Moretti e la mai identificata prigione che
dimostra come le BR abbiano fruito di singolari protezioni e complicità mai
accertate. I servizi ne sono informati, arrestano Moretti quando è pronta
l’ascesa di Senzani al vertice delle BR in fase di separazione consensuale. È
questa loro capacità gestionale che li convince, raggiunto ormai l’obiettivo di
tenere il PCI fuori dal governo, di essere in grado di svolgere un ruolo
crescente di influenza politica, a fini propri, di Stato nello Stato (che è
cosa diversa dal Doppio Stato) […] La situazione delle BR a livello nazionale,
in quel periodo, è così descritta da Moretti: “Rimane integra la colonna romana.
Ne fanno parte compagni come Luigi Novelli, Remo Pancelli, Marina Petrella e
Pietro Vanzi. È sicuramente la colonna più compatta e sarà quella che guiderà
il passaggio dalle Brigate Rosse al Partito Comunista Combattente. Poi ci sono
Barbara Balzerani, Antonio Savasta e Francesco Lo Bianco che tra la colonna in
Veneto e quel che rimane a Milano faranno parte della stessa tendenza. Ma al
momento del mio arresto anche la colonna di Napoli, che è guidata da Giovanni
Senzani e Vittorio Bolognese, è d’accordo con la linea dall’organizzazione
sperimentata con D’Urso. Be’, ci dicemmo con Fenzi parlandoci tra le grate
delle celle d’isolamento, forse c’è una speranza che vadano avanti, rimane
Barbara, rimane Lo Bianco, rimane Savasta, che era uno dei più convinti, uno
che aveva macinato molto della nostra storia”. “Forse c’è speranza” è tutto
quello che può dire il leader ormai fuori gioco. Sulla carta, se a Milano di
fatto c’è solo l’Alasia, le BR dispongono ancora di un migliaio di irregolari e
di un centinaio di regolari […] Ma le forze di sicurezza potrebbero
annientarle, come faranno pochi mesi dopo a seguito del sequestro Dozier.
Eppure questa forza, ancora consistente, viene lasciata operare per realizzare
ben quattro rapimenti in simultanea, mentre le tre volte più forti BR del
sequestro Moro avevano dovuto accantonare il velleitario progetto di un secondo
sequestro, quello di Leopoldo Pirelli […] Questa la situazione al momento
dell’arresto di Moretti, la cui vicenda, prima dei processi, si conclude con un
episodio nel carcere speciale di Cuneo che egli definisce “inspiegabile”:
“Quella coltellata resta inspiegabile. Si possono fare supposizioni ma non mi
piace fare supposizioni, su di me ne ho sentite troppe. Eravamo al passeggio,
non ero solo, in senso inverso camminava un camorrista, tale Figueras, che,
arrivato alla mia altezza, m’infila d’improvviso un coltello – una lama
lavorata a coltello – nell’addome da sotto in su, come si vede nei film, un
colpo per ammazzare. Non so come lo schivo, mi ferisce appena di striscio e la
lama finisce sull’inferriata che mi sta dietro, storcendosi. È solo per questo
che sono ancora vivo, quello continua a colpirmi all’impazzata, sono caduto,
cerco di coprirmi con e mani, mi lacera mani e un braccio. Poi, forse convinto
che con me ha raggiunto lo scopo, cerca di colpire anche Fenzi, che si trova al
lato opposto del cortile. Riesce solo a infilzarlo a un fianco prima che un
compagno, Agrippino Costa, reagisca e cerchi di bloccarlo. Ma a questo punto le
guardie aprono il cancello e sparisce con loro, senza cercare di buttar il
coltello, glielo dà. Non ho capito chi e perché mi volesse ammazzare, chi gli
aveva dato quell’ordine. Non la camorra, con quella non c’erano né contatti né
scontri. Credo che anche da parte dello Stato non fosse tutto chiaro, a un
certo punto pesino alla DIGOS persero per un momento la testa, mi buttarono su
una camionetta e correndo verso l’ospedale uno mi tenne per tutto il tragitto
la pistola puntata alla fronte… Mi spedirono a Pisa per l’operazione
chirurgica. Dopo il primo momento sedarono tutto. L’ordine è venuto da fuori.
In quel momento era in atto il sequestro Cirillo e a Napoli gli interessi dei
diversi poteri, legali e illegali, si intrecciavano e si sorreggevano a
vicenda. Quel tentativo di sbudellarci poteva essere qualcosa di più di un
avvertimento: voi tenete Cirillo, noi vi ammazziamo Moretti. “Noi” chi era?
Resta il fatto che ci provarono e seriamente. A Pisa mi hanno curato
benissimo”.
Pur se sono solo supposizioni, l’episodio è tanto importante che
occorre avanzarne. La mia e probabilmente anche quella di Moretti né che fosse,
appunto, un avvertimento che si rispettasse il patto del silenzio, prima dei
processi, sui misteri del caso Moro, quelli di cui parla anche l’avvocato De
Gori, il silenzio sul tiratore scelto di via Fani. Il carcere di Cuneo è quello
in cui Dalla Chiesa, con la collaborazione di Pecorelli, che sui misteri molto
ha scritto, e del direttore del carcere, avrebbe recuperato alcune “carte di
Moro”. Per Cirillo furono condotte trattative proprio tra camorra, BR e
servizi, anche nel carcere di Ascoli Piceno, dove era detenuto Cutolo e andrà
poi Senzani. I rapporti tra BR e una supposta base proletaria della malavita
organizzata erano stati teorizzati ne “L’albero del peccato”. Si dirà poi che
il tiratore scelto poteva essere uno di quei “proletari”. Insomma, al “Noi: chi
era?” di Moretti si può tentar di rispondere: chi voleva mandare un
avvertimento perché i patti, dopo via Gradoli e il lago della Duchessa, fossero
rispettati durante i processi, come avvenne. E intanto i servizi lasciavano
credere che le BR fossero più forti che mai.
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da Giorgio Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, 2007 Baldini Castoldi Dalai editore
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