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Allora Washington prese l’accetta (5 giugno 1975)
È da tempo che tra Washington e Roma non c’è più buona sintonia. Si può dire che si sia interrotta quando a Dallas il kennedismo trovò la sua Watergate[1]. Da allora i due Paesi, pure alleati, hanno seguito due politiche tendenzialmente e progressivamente divergenti. Con gli USA troppo impegnati sullo scacchiere asiatico, altri poli, altre tentazioni si sono fatte strada tra i fragili vertici romani. Di slittamento in slittamento, di compromesso in compromesso, fingendo di assecondare l’ostpolitik di Willy Brandt, si stava finendo piuttosto nell’area del neutralismo balcanico di stampo jugoslavo o austriaco. Pochi hanno voluto capire fino in fondo il senso delle recenti vicende che all’interno del SID vedono tuttora contrapposti due schieramenti[2]. Facenti capo all’ufficio D il primo, al cosiddetto Supersid l’altro. Per chi ancora non sapesse, l’ufficio di Maletti per compiti e mansioni è quello che più direttamente esprime e risente degli equilibri, degli umori e delle tendenze del personale politico capitato ai vertici della nostra Repubblica. Viceversa il Supersid fa capo direttamente ai comandi di Bruxelles[3]. Il sistema di sicurezza NATO, assai improbabile come schieramento militare da contrapporre alla potenza delle armate rosse, è viceversa lo strumento per misurare l’indice di affidabilità dei governi dei Paesi membri alle decisioni politico-militari prese in Pentagono. Ne risulta che se dall’apparato italiano considerato più vicino all’alleato USA si è ritenuto di dover escludere proprio quel settore del Servizio Informazioni Difesa più contiguo al milieu politico, il provvedimento non è di buon segno per le quotazioni del nostro centrosinistra sulla borsa di Washington[4]. L’Italia è a una stretta. Crisi economica e crisi istituzionale si fondono in una mescola non più scindibile. Dalla attuale fase, o si esce tutti diversi e a testa alta, o non si esce affatto […] Dopo Grecia, Portogallo e Vietnam, cogli USA a guardare di nuovo all’Europa, nel Mediterraneo siamo tornati indispensabili. È qui che sono caduti i Rumor. Gli uomini ibridi del traccheggio sono stati bruscamente messi da parte dalla naturale selettività delle cose. La specie deve sopravvivere. Nell’ora del lupo, guai agli agnelli. Eppoi, il IV mondo non è Virginia Woolf. È questa la cornice che aspettava Ford e Kissinger ieri a Roma. Il loro è stato un sopralluogo. Hanno guardato un’ultima volta negli occhi i loro ospiti, per capire meglio chi potrà ancora servire e chi invece è da mandare senz’altro in pensione. D’altronde, la strategia del rinnovamento sta già concretamente seguendo il suo corso. Passate le elezioni, la mano tornerà alla regia d’oltreconfine da dove sono già stati allineati i grossi calibri[5]. United Brands, Gulf, Exxon hanno sparato la prima salva […] In seconda battuta c’è poi che il decollo delle nostre imprese richiederà il sacrificio di altri due milioni di braccia mandate ad ingrossare le fila della disoccupazione. Il giro di vite del dopo 15 giugno, nonostante qualcuno cerchi di sfumare, fa apparire sempre più difficile per tutti ritrovarsi poi in Montecitorio come se nulla fosse accaduto. Nei torridi mesi estivi, tra un rifiorir di scandali e veline, con la stampa a far da docile supporto e con un’opinione pubblica sempre più frastornata chiamata ad assistere a capovolgimenti assolutamente inspiegabili, è allora che scatterà l’epurazione degli oggetti diventati inutili per governare. Intanto, s’avvicina per la DC l’autunno col suo congresso. Mentre Sindona riprende le sue trame, per qualcuno potrebbe essere quasi un Gran Consiglio.
Dunkerque (19 giugno 1975)
DC 35,3 (-3,1); PC 33,4 (+5,1). Quattro regioni consegnate a giunte frontiste; il PCI primo partito a Torino, Milano, Genova, Bologna, Ancona, Perugina, Napoli. E Roma nell’anno del Giubileo. Non c’è che dire: un bel successo per il carniere dell’attuale staff democristiano. Che ora si strappa i capelli. Si compiace in battute goliardiche e puerili atteggiamenti sadomasochistici. Per continuare a mascherare un pauroso vuoto di idee, una terrificante mancanza d’ogni strategia di ricambio. E l’impasse è sempre stata la forca di ogni leader politico[6]. Viceversa, ora più che mai è l’ora della ragione. La rotta non può e non deve essere travolta in disfatta. Ora più che mai è il caso di mettere in salvo le truppe ancora salvabili. Per attestarsi su di una nuova linea, più agile, più difendibile. Ma con alla testa generali nuovi e con nuovi criteri di strategia militare. Aria fresca, ha continuato a dire Fanfani, mentre da quel lontano giugno 1973 soffia soltanto a pieni polmoni. Aria fresca ha continuato a dire Fanfani, mentre da piazze e tivù intrattiene italiani sempre più attoniti, sempre più sbigottiti con frizzi e battute da insegnante di provincia l’ultimo giorno di scuola. Ora ogni tremendismo è inutile e dannoso. Ne va della testa. È inutile dannarsi l’anima, strapparsi vesti e capelli. È inutile cantare gli osanna o alzare i crucifige. Perché, oggi, qui pochi hanno da felicitarsi. Da Bonn e da Washington si storce già il naso[7]. E la borsa crolla mentre i nuovi capitali prendono la via della Svizzera. Ma anche se Berlinguer non ricorda più il supplizio di Tantalo, qualcosa tuttavia è successo. Vediamo come e perché.
DC in agony. La DC è un partito vecchio. Uno strumento arrugginito rimasto indifferente ai mutamenti del paese reale. Anomalo alla cultura sviluppata in questi ultimi anni. Ha continuato a credere nelle clientele e negli intrighi, negli anni della partecipazione e della persuasione. È tuttavia un partito strategicamente insostituibile. Alleanze politico-militari e livelli di integrazione industriale ne impediscono ogni ricambio. E allora come far quadrare questo cerchio? Come mutare dall’interno vesti e modo d’essere di un partito che ha finora eretto a sua norma di vita immutabilità e la inamovibilità? Innanzitutto attraverso traumi continui. È usando forze esterne come strumenti di pressione e di intimidazione. Forze raccogliticce, magari eterogenee, eretiche anche e mercenarie. Ma indubbiamente forti. Compagni di strada per una rivoluzione indolore. È così, attraverso questa terapia d’urto fatta di insubordinazione, di tattiche di terrore, di strategie opposte di corpi separati, di scossoni istituzionali e di abbozzi di rivolta, che si è giunti al 15 giugno[8]. È così che in pochi anni, dal ’73 a oggi, alla DC è stato via via complicato il cammino fino a giungere al bivio. Dove l’aut aut non è più rinviabile. Deve cambiare cavallo e finimenti. Bere o affogare, non ci sono più santi in Paradiso. Né in Vaticano[9].
Sarà Craxi il nostro Soares[10]? (19 luglio 1975)
Panico “borghese” in via del Corso [sede nazionale del PSI]. Dove sta prendendo quota la linea di coloro che vogliono prender nette le distanze dal PCI, non fidandosi delle pur lusinghiere dichiarazioni demotraticistiche di Enrico Berlinguer – che peraltro sempre più sgradito a Mosca potrebbe essere di qui a poco bruscamente sostituito – tendono piuttosto l’occhio su quei fenomeni di infiltrazione e insubordinazione delle Forze Armate di casa nostra […] L’operazione “risocialistizzare il PSI” la stanno conducendo proprio i nenniani d’antica data e con Bettino Craxi in prima fila. E i risultati non dovrebbero tardare troppo. Tra l’altro col congresso d’ottobre è previsto un ricambio alla segreteria De Martino. Con una soluzione che transitoria in Mosca, diventerà poco dopo definitiva proprio con Craxi[11].
L’America, esperta, scherza e prevede (13 settembre 1975)
Un funzionario al seguito di Ford in visita a Roma, ebbe a dichiararci: “Vedo nero. C’è una Jaqueline nel futuro della vostra penisola”[12].
Craxi sempre Craxi fortissimamente Craxi (2 ottobre 1975)
In via del Corso ormai sempre più chiaramente la linea emergente è di nuovo quella del confronto con la DC. Anche la battaglia precongressuale ha espresso questa direttrice. Il suo primo vincitore, Bettino Craxi, almeno per ora, pare ci sia riuscito. Sarà il futuro segretario politico dei socialisti. L’arroganza del PCI dopo il 15 giugno la stretta di vite americana, hanno giocato netto in suo favore. Ora infatti hanno la piena maggioranza quelli che rimproverano a De Martino, nei confronti di Berlinguer, una politica fin troppo avventuriste che ha finito per far perdere di vista al PSI l’unico suo interlocutore reale: la Democrazia Cristiana. Con Craxi segretario quindi rientrano nel partito del solnascente autonomia e anticomunismo, e il rapporto preferenziale e di reciproco rispetto sarà solo quello con Piazza Sturzio[13].
Socialisti e buone intenzioni: saremo autonomi e tecnocratici (18 ottobre 1975)
Ormai l’accordo è stato raggiunto: il nuovo segretario sarà Bettino Craxi. Sulla linea di una duplice autonomia: né subalterni alla DC né tantomeno fratelli poveri di via delle Botteghe Oscure. Craxi piuttosto intende porsi come punto di riferimento a PRI e PSDI e, una volta raggiunto un completo accordo con le forze laiche su una piattaforma globale, andare da posizioni di forza a quelle trattative con una DC di cui frattanto ci si auspica la rifondazione. Solo a questo punto, dai quattro partiti potrà, finalmente, uscire un patto di ferro e un governo di legislatura. Questo, però, come si vede, è un programma di medio periodo. Per l’immediato, tra laici e DC del nuovo corso è stata già raggiunta un’intesa. Con la crisi economica e istituzionale in atto, è meglio non bruciare nuove formule politiche con operazioni troppo precipitose. Conviene piuttosto, fatto fuori Moro, lasciare che un governo di tecnici, ma con l’appoggio esterno dei quattro partiti, tolga dal fuoco tutte le castagne del bilancio, degli scambi con l’estero e del rilancio dell’economia. E dietro le quinte, rifondare e mettere a punto un programma comune fin nei dettagli.
La grande virata della barca socialista (25 ottobre 1975)
Non tragga in inganno la levata di scudi antimanciniana del De Martino di ieri. Il PSI ha da tempo virato dalla rotta neofrontista. Se oggi il professor Francesco ha dovuto alzare un po’ di polvere, scongiurare la crisi del governo Moro e carezzare per il verso giusto il pelo dei comunisti, è solo perché ancora non gli è giunto l’ordine del via. Quando sarà il momento, a cantar messa saranno i Mancini e i Craxi e la loro autonomia. Perché a Washington s’è deciso: il nuovo potere in Italia sarà assicurato da una santa alleanza, anticomunista ma riformatrice, tra un PSI e una DC tutti rinnovati. Che magari potranno giovarsi dell’estemporaneo appoggio esterno di un PCI che vorrà far confluire su qualche disegno di legge anche i suoi voti. Ma che resterà rigorosamente escluso dall’area del governo. Pena la nascita – coll’appoggio degli USA – di nuove formazioni politiche, gemelle e parallele a DC e PSI[14].
[1] Il riferimento è all’uccisione di John Kennedy (Dallas, 22 novembre 1963), il presidente USA che aveva approvato la svolta politica del centrosinistra in Italia.
[2] Il generale Vito Miceli, capo del SID, è stato sostituito nel giugno del 1974 e arrestato nel successivo settembre, con l’accusa di collusione con le trame eversive. Poco dopo il generale Gianadelio Maletti, capo dell’Ufficio D del SID, e il suo più stretto collaboratore capitano Antonio Labruna (i quali hanno concorso a denunciare l’attività “deviata” di Miceli) sono finiti sotto inchiesta giudiziaria con l’accusa di favoreggiamento degli imputati per la strage di Piazza Fontana. Il generale Miceli (stimato da Moro per avere risolto delicati problemi nei rapporti con i movimenti di liberazione della Palestina) in definitiva era succube dei servizi segreti americani; Maletti, fautore di una linea di maggiore dignità nazionale, privilegiava i rapporti con Israele.
[3] OP evidenzia qui il peso politico, interno e internazionale, del servizio segreto militare italiano, ma ne sottolinea la doppiezza. C’è il Servizio per la sicurezza “interna”, quello capeggiato dal generale Maletti, sensibile alle richieste di uomini politici come Andreotti e il socialista Giacomo Mancini; e c’è il Servizio “internazionale”, il Supersid, già guidato dal generale Miceli e gestito dall’Alleanza atlantica in barba alla sovranità nazionale.
[4] Pecorelli spiega che l’Alleanza atlantica, più che uno schieramento militare rivolto all’Est comunista, è uno strumento per controllare la fedeltà a Washington dei Paesi europei membri. Nello specifico dell’Italia, i dubbi americani aumentano al punto che la NATO ritiene inaffidabile la fazione del SID capeggiata dal generale Maletti. Sul tema, dal carcere brigatista Moro scriverà: “Ho già detto altrove dell’onorevole Andreotti il quale ereditò dal SIOS (Servizio Informazioni Esercito) il generale Miceli e lo ebbe alle sue dipendenze dopo Rumor e prima di ricondurlo a Rumor al finire del governo con i liberali. Ho già detto che vi era tra i due profonda diffidenza. Il presidente del Consiglio Andreotti che aveva mantenuto non pochi legami, militari e diplomatici, con gli Americani dal tempo in cui aveva lungamente gestito il ministero della Difesa entro il ’68, aveva modo, per così dire, di controllare il suo controllore e poté così severamente addebitargli un giudizio negativo sulla sicurezza che egli aveva espresso agli americani sul suo Presidente del Consiglio, ma che al presidente Andreotti era stato riferito dai suoi amici americani così come il loro collega italiano li aveva formulati”.
[5] Si noti l’insistenza con la quale Pecorelli afferma che la regia del “rinnovamento” della dirigenza democristiana è oltreconfine.
[6] Il 15 e 16 giugno 1975 si sono svolte le elezioni amministrative per il rinnovo dei Consigli comunali, provinciali e regionali, e il risultato elettorale è stato un terremoto: la DC è arretrata, i suoi alleati laici (PSDI, PRI, PLI) ancora di più; il PCI è salito di oltre cinque punti, il PSI è cresciuto fino al 12 per cento. Ormai il Partito Comunista insidia da vicino il primato democristiano e in cinque regioni così come nelle principali città e province si formano giunte di sinistra con la DC all’opposizione.
[7] I commenti della stampa americana sui risultati elettorali italiani sono allarmati. Per Washington il dato più preoccupante è la ridottissima distanza che separa DC e PCI, meno del 2 per cento. Il segretario di Stato Kissinger il 17 giugno dichiara lapidario: “Le forze non democratiche sono oggi più forti. Ciò lascia meno spazio al gioco delle forze democratiche”. Anche il presidente della RFT Walter Schell, in visita ufficiale a Washington, esprime preoccupazione per la situazione politica italiana.
[8] Pecorelli teorizza apertamente, senza perifrasi, la necessità di estendere la strategia della tensione anche per “domare” la DC. Una strategia per influire sul corso politico italiano frenandone lo slittamento a sinistra.
[9] In queste parole di OP c’è l’ultimatum che la reazione atlantica rivolge alla DC: deve cambiare cavallo, cioè deve liberarsi della leadership di Moro. Diversamente nessun santo né il Vaticano potranno salvare il partito democristiano dalla catastrofe.
[10] Mario Soares, segretario del Partito Socialista portoghese, ha vinto le elezioni del 25 aprile 1975 grazie al sostegno politico e finanziario di inglesi, tedeschi e olandesi, e dopo qualche riluttanza anche di Kissinger. Soares ha battuto il tentativo egemonico del Partito Comunista portoghese di Alvaro Cunhal e dell’ala estremista delle forze armate.
[11] È la prima di una serie di note con le quali OP presenta il poco noto parlamentare socialista Bettino Craxi come futuro leader del PSI in funzione anticomunista.
[12] Le allusioni di Pecorelli alla morte di Moro raggiungono il culmine con questa nota. Citando una fonte anonima dell’entourage del presidente americano, il direttore di OP menziona Jaqueline Kennedy, la vedova di John Kennedy, il presidente americano assassinato a Dallas il 22 novembre 1963, e profetizza un importante delitto politico anche in Italia. Moro qui non viene citato, ma è il solo uomo politico italiano per il quale OP continua a evocare la morte.
[13] Questa è una delle più profetiche note di OP. infatti, benché al momento Bettino Craxi sia solo un giovane e poco noto deputato del PSI appartenente alla minuscola corrente nenniana, Pecorelli – citando fonti e volontà americane – lo indica con certezza come il prossimo segretario del PSI. È precisamente quanto accadrà nove mesi dopo, il 15 luglio 1976: Craxi verrà eletto a sorpresa provvisorio leader del PSI; e anche grazie al sostegno statunitense e ai finanziamenti della P2 (conto svizzero “Protezione”) diventerà poi il padrone del partito in chiave anticomunista.
[14] OP lo scrive a chiare lettere: la politica italiana viene decisa a Washington. E il Dipartimento di Stato americano – scrive l’informatissimo Pecorelli – ha deciso che il nuovo potere in Italia sarà una santa alleanza tra un PSI e una DC tutti rinnovati. È quanto puntualmente accadrà dopo l’uccisione di Moro.
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da Sergio Flamigni, Le idi di marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, 2006 Kaos edizioni
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Tag: Moro, Pecorelli
ascoltando una trasmissione radiofonica di Radiopopolare, nello specifico Giro del tempo a cura di Ezio de Gradi, sono accidentalmente inciampato nella notizia che tra le espressioni artistiche che l'amministrazione Bush jr invitò a censurare in seguito agli avvenimenti dell'undici settembre, ci stava pure una canzone di Elvis che non conoscevo, Devil in disguise. come avere il seppur minimo dubbio che gli USA siano la più matura e raffinata democrazia che la storia umana abbia mai conosciuto?
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Spararono a mio padre alle 9.15 [del 17 maggio 1972] mentre apriva la portiera della Cinquecento blu di mia madre. Era appena uscito di casa, dopo vari tentennamenti che lo avevano portato a rientrare per ben due volte, la prima per sistemarsi il ciuffo, la seconda per cambiarsi la cravatta. Era uscito con una cravatta rosa, se la sfilò per metterne una bianca […] Mamma stava aspettando una donna, che doveva arrivare da un momento all’altro. Non l’aveva mai vista, ma da quel giorno sarebbe dovuta venire due volte alla settimana per aiutarla in casa: il lavoro era troppo con due bambini e un terzo in arrivo. Si presentò in ritardo, trafelata: “Signora, mi scusi, ma giù in strada c’è il finimondo: hanno sparato a un commissario” […] “Se ora vogliono far emettere un francobollo in memoria dell’anarchico Pinelli, facciano pure perché tutti, anche a distanza di anni, hanno diritto a una commemorazione. Ma se questo dovesse servire per cavalcare di nuovo la tesi dell’omicidio volontario, allora sono dei pazzi che vanno fuori strada. Perché sarebbe come uccidere una seconda volta il commissario Calabresi, il quale, tra l’altro, non era neanche presente nella stanza della questura da cui cadde Pinelli. Attenzione.” Parte così, sul Corriere della Sera, un’intervista di una pagina al senatore dell’Ulivo Gerardo D’Ambrosio, il giudice istruttore che indagò insieme ai PM Luigi Fiasconaro ed Emilio Alessandrini su piazza Fontana e sulla morte di Pinelli.
È il 18 dicembre 2006 […] Il pezzo è firmato da Dino Martirano, il giornalista che costrinse l’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola a dimettersi, raccontando come l’esponente di Forza Italia avesse definito Marco Biagi un “rompicoglioni” […] Lo chiamo, mi invita a fare colazione da lui, poi mi regala il nastro con l’intervista integrale […] Telefono a D’Ambrosio, gli chiedo di poterlo vedere brevemente. Ci incontriamo fuori dal Senato, prendiamo un caffè a Sant’Eustachio e poi camminiamo verso il Pantheon. Gli domando se posso utilizzare la registrazione: “Penso che sarebbe innaturale se fossi io a intervistarla e a chiederle di scagionare un’altra volta Luigi Calabresi, forse a un figlio si sentirebbe in dovere di dire cose positive. Penso che con Martirano lei si sia sentito libero di dire quello che pensa e io utilizzerei la vostra chiacchierata come un documento” […] Cammina fissando i sampietrini. “Ricevo ancora delle lettere in cui mi si chiede perché li ho assolti. Lo feci perché ero assolutamente convinto che non c’era stato omicidio. Il danno che Lotta Continua ha fatto è stato soprattutto questo, ha lavorato a fondo nelle coscienze della gente di sinistra convincendola che Pinelli era stato ucciso e che i processi erano finti. Non volevano la verità ma la sentenza che avevano in testa loro, una sentenza di colpevolezza. E io ne porto la colpa. Così oggi mi arrivano queste lettere in cui mi si dice: ‘Lei è andato a fare il senatore ma ci deve dire come mai ha assolto gli assassini di Pinelli’ […]”. Torno a casa e accendo il registratore: “Ricordo che mi venne consegnato il fascicolo dove era scritto ‘omicidio colposo’, io dissi che non avrei fatto nulla se non si fosse partiti da omicidio volontario. Bisognava procedere con trasparenza, combattere le opacità e quella vecchia terribile mentalità che c’era a palazzo di Giustizia e nella Polizia. Quando mi presentai in questura mi guardarono malissimo e non capivano che io facevo prove ed esperimenti, portandomi dietro i cronisti, nell’interesse della verità. Facemmo mille accertamenti, cercammo tutti i riscontri possibili, ma gli indizi che portavano all’omicidio volontario vennero meno uno dopo l’altro”. “L’ambulanza. Sulla chiamata dell’autovettura venne fatto un romanzo giallo. Allora senza preavviso, insieme al cancelliere, andai al 117, che era il numero dei vigili urbani che allora governavano i servizi di ambulanza. Chiesi di vedere come funzionava. Mi portarono nella sala di controllo dove c’era una grande pianta della città illuminata con i punti in cui stazionavano le ambulanze. Mi fecero vedere da dove veniva l’ambulanza per Pinelli e l’ora in cui era stata chiamata. Presero il registro, lo aprirono sul giorno 15 dicembre [1969] ed era segnato che esattamente a mezzanotte e un minuto era stata chiamata l’ambulanza di piazza Cinque Giornate. Quindi facemmo l’esperimento per vedere quanto impiegava – perché si era detto che era stato lasciato per terra non so per quanto tempo – e si vide che ci volevano pochi minuti. Coincideva perfettamente l’orario della caduta e quello della chiamata, non c’era nessun giallo”. “Il siero della verità. C’era il segno di una puntura d’ago nel braccio di Pinelli. Si sosteneva che in questura gli era stata iniettata una dose di scopolamina, di siero della verità, in seguito al quale Pinelli aveva avuto il malore e per questa ragione lo avevano gettato dalla finestra. Invece era il segno della flebo che gli era stata fatta in ospedale per tentare di salvargli la vita. Io mi presentai al pronto soccorso, dove il medico di turno mi disse: ‘Ancora con questa storia! Vada a vedere i giornali, mi ricordo che entrò un fotografo e scattò’. Trovai sul Corriere d’Informazione la foto di Pinelli con la flebo nel braccio, feci sequestrare i negativi, li feci stampare e li allegai agli atti. Anche questo indizio venne meno”. “Il colpo di karate. Nell’autopsia si parlava di una macchia oculare. In questo caso si sostenne che era stata causata da un colpo di karate. Facemmo una perizia dopo aver riesumato ila salma e stabilimmo che non c’era stato nessun colpo di karatè. La macchia, come spiegarono tutti i periti, era dovuta alla permanenza del cadavere sul marmo dell’obitorio”. “La caduta. A questo punto c’era un altro indizio, quello del punto di caduta del corpo. Richiamai i portantini, quelli dell’ambulanza, la gente presente e mi feci indicare il punto di caduta. Vedemmo che coincideva esattamente con il punto in cui c’erano i rami spezzati di un grosso cespuglio, che erano stati fotografati il giorno dopo, e c’era anche una traccia dell’urto sul cornicione sotto la finestra. Non le dico il questore Guida come mi guardava mentre io facevo questi esperimenti giudiziari in questura, il sancta sanctorum della Polizia. Un magistrato che entrava a indagare sulla Polizia per omicidio volontario… Uno solo dei testimoni indicò un punto diverso, più lontano: era un giornalista dell’Unità, una persona abbastanza anziana che non aveva avuto il coraggio di avvicinarsi a Pinelli e aveva indicato un punto generico. Dissi chiaramente in sentenza che bisognava stabilire l’attendibilità dei testi e che i testi che avevano indicato il primo punto erano i più credibili. Mentre stavo scrivendo la sentenza di proscioglimento, Panorama, che allora era un settimanale di sinistra, pubblicò il parere di un gruppo di professori di Fisica – li cita ancor oggi Liberazione – che volevano dimostrare che il corpo di Pinelli non era caduto a un metro e mezzo dal muro, come sostenevo io basandomi sui riscontri oggettivi, ma a quasi cinque metri, perché il punto indicato dal giornalista dell’Unità era sette o otto metri e loro avevano fatto la media tra i punti indicati dai testimoni. La perizia iniziava con queste parole: ‘Fatta la media tra le distanze indicate dai testimoni…’. Io nella sentenza mi premurai di spiegare: badate, cari fisici, che le deposizioni non si valutano matematicamente, perché non ci sarebbe bisogno dei giudici, ma si valutano a seconda dell’attendibilità e questa si ha con i riscontri obiettivi. Dopo due o tre anni uno di questi professori bussò alla mia porta. Gli domandai: ‘Scusi, lei chi è?’. ‘Sono un professore di Fisica, uno di quelli che firmarono il documento, sono venuto per chiederle scusa, lei ci ha dato una grande lezione’.” […] “Allora studiammo le possibili modalità della caduta, la traiettoria e facemmo gli esperimenti giudiziari addirittura in piscina per stabilire cosa fosse successo. Furono fatte tutte le valutazioni possibili e immaginabili, finché la soluzione data dai tecnici evidenziò che il corpo si era appoggiato alla ringhiera ed era caduto. Pinelli era in questura da tre giorni, quasi digiuno, non aveva dormito, era stato fermato la sera del 12 dicembre [1969] e messo in uno stanzone con tutti gli altri fermati di destra e di sinistra – poi naturalmente i manifestanti di destra, essendo quello l’orientamento della polizia di allora, furono mandati via – ed era stato sottoposto a questo lungo interrogatorio. Probabilmente si sentì male, ebbe le vertigini e si accasciò sul davanzale, che era alto solo novanta centimetri. Addirittura facemmo un esperimento che indignò ancora di più il questore Guida: feci fare un manichino con lo stesso peso e le stesse proporzioni di Pinelli, per vedere dove sarebbe arrivato se fosse stato gettato dalla finestra. Si evinse che il corpo non poteva essere stato spinto da altri, ma che si era accasciato; insomma, non c’era nessuna prova che Pinelli fosse stato ucciso. Nessuna prova. L’ipotesi più probabile è che, dopo l’interrogatorio, abbia aperto la finestra per prendere una boccata d’aria, che il digiuno, la stanchezza, la tensione abbiano provocato un giramento di testa, una vertigine, e che, quindi, sia caduto dalla ringhiera”. “La stanza. Tutti, concordemente – e c’era anche un ufficiale dei carabinieri, il tenente Lograno – dissero che nel momento in cui Pinelli precipitò Calabresi non era nella stanza perché era andato a riferire ad Allegra. L’anarchico Pasquale Valitutti, che era in una stanza vicina, disse di non aver visto passare il commissario Calabresi. Io andai anche a constatare l’esatta distanza tra gli uffici, il percorso fatto da Calabresi e la visuale che poteva avere Valitutti dal punto in cui si trovava. Poteva non averlo visto perché nello stanzone c’era solo una piccola finestra che dava sul corridoio e uno doveva starci davanti con lo sguardo fisso per vedere chi passava. Così pronunciai una sentenza di proscioglimento anche nei confronti del commissario Calabresi per non aver commesso il fatto, ma nel frattempo era stato ucciso. Poi misi sotto processo quelli della Polizia per l’arresto illegale di Pinelli, perché non era stato comunicato alla magistratura, ma se la cavarono in seguito a un’amnistia” […]
Le calunnie, ripetute con insistenza, sono capaci di costruire una biografia. Non posso non tornare a pensare a mio padre e al personaggio che venne costruito tra il 1969 e il 1972, con la collaborazione di giornali, pièce teatrali, film, volantini e scritte sui muri, che in parte mi sembra sopravvivere al passare del tempo, alle smentite, alle evidenze. Ma ci sono cliché inaffondabili. Così tocca leggere ancora oggi che Luigi Calabresi era stato addestrato in America, che era uomo della CIA, che nel 1966 fece da accompagnatore ufficiale al generale americano Edwin A. Walker e che fu lui a presentarlo al generale Giovanni De Lorenzo […] Mio padre non parlava una parola d’inglese e non ebbe mai prima le possibilità, poi il tempo per viaggiare. L’unico timbro sul suo passaporto è stato messo a Barcellona il 31 maggio 1969. primo giorno del viaggio di nozze che portò i miei genitori a Granada e Siviglia, dove mi concepirono. Poi, per lavoro, andò in Svizzera. Mai oltreoceano. Ma potrebbe essere tutto opinabile, vai a sapere la dietrologia, se non fosse per un piccolo particolare: l’anagrafe. Si era laureato nel 1965, aveva fatto il concorso per diventare vicecommissario e nel 1966 partecipò al corso di formazione della scuola di Polizia. Che la CIA si affidasse a Roma a un neolaureato, che poi gli avesse dato l’incarico di fare da guida a Roma a un generale e che un allievo della scuola di Polizia fosse il tramite tra gli americani e un golpista italiano è quasi divertente a immaginarsi, tanto è incredibile.
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da Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là, 2007 Mondadori
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Tag: Calabresi, Pinelli
giornata di merda, scimmia del cazzo. te la meriti proprio tutta, fino in fondo. ci sei? sei ancora lì? bene, allora facciamo una cosa: intanto che te ne vai a fare in culo, mettiamo in sottofondo qualcosa che ti piace tanto, che so, un brano dei Primal Scream remixato da David Holmes, eh? sai, oggi hanno detto che a Roma la cocaina gira nell'aria. beh, non è aria per te. niente bamba cocca. niente di niente, a parte il fat beat di Swastika eyes. fattelo bastare, fossi in te mi metterei a sculettare.
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