Spararono a mio padre alle 9.15 [del 17 maggio 1972] mentre apriva la portiera della Cinquecento blu di mia madre. Era appena uscito di casa, dopo vari tentennamenti che lo avevano portato a rientrare per ben due volte, la prima per sistemarsi il ciuffo, la seconda per cambiarsi la cravatta. Era uscito con una cravatta rosa, se la sfilò per metterne una bianca […] Mamma stava aspettando una donna, che doveva arrivare da un momento all’altro. Non l’aveva mai vista, ma da quel giorno sarebbe dovuta venire due volte alla settimana per aiutarla in casa: il lavoro era troppo con due bambini e un terzo in arrivo. Si presentò in ritardo, trafelata: “Signora, mi scusi, ma giù in strada c’è il finimondo: hanno sparato a un commissario” […] “Se ora vogliono far emettere un francobollo in memoria dell’anarchico Pinelli, facciano pure perché tutti, anche a distanza di anni, hanno diritto a una commemorazione. Ma se questo dovesse servire per cavalcare di nuovo la tesi dell’omicidio volontario, allora sono dei pazzi che vanno fuori strada. Perché sarebbe come uccidere una seconda volta il commissario Calabresi, il quale, tra l’altro, non era neanche presente nella stanza della questura da cui cadde Pinelli. Attenzione.” Parte così, sul Corriere della Sera, un’intervista di una pagina al senatore dell’Ulivo Gerardo D’Ambrosio, il giudice istruttore che indagò insieme ai PM Luigi Fiasconaro ed Emilio Alessandrini su piazza Fontana e sulla morte di Pinelli. È il 18 dicembre 2006 […] Il pezzo è firmato da Dino Martirano, il giornalista che costrinse l’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola a dimettersi, raccontando come l’esponente di Forza Italia avesse definito Marco Biagi un “rompicoglioni” […] Lo chiamo, mi invita a fare colazione da lui, poi mi regala il nastro con l’intervista integrale […] Telefono a D’Ambrosio, gli chiedo di poterlo vedere brevemente. Ci incontriamo fuori dal Senato, prendiamo un caffè a Sant’Eustachio e poi camminiamo verso il Pantheon. Gli domando se posso utilizzare la registrazione: “Penso che sarebbe innaturale se fossi io a intervistarla e a chiederle di scagionare un’altra volta Luigi Calabresi, forse a un figlio si sentirebbe in dovere di dire cose positive. Penso che con Martirano lei si sia sentito libero di dire quello che pensa e io utilizzerei la vostra chiacchierata come un documento” […] Cammina fissando i sampietrini. “Ricevo ancora delle lettere in cui mi si chiede perché li ho assolti. Lo feci perché ero assolutamente convinto che non c’era stato omicidio. Il danno che Lotta Continua ha fatto è stato soprattutto questo, ha lavorato a fondo nelle coscienze della gente di sinistra convincendola che Pinelli era stato ucciso e che i processi erano finti. Non volevano la verità ma la sentenza che avevano in testa loro, una sentenza di colpevolezza. E io ne porto la colpa. Così oggi mi arrivano queste lettere in cui mi si dice: ‘Lei è andato a fare il senatore ma ci deve dire come mai ha assolto gli assassini di Pinelli’ […]”. Torno a casa e accendo il registratore: “Ricordo che mi venne consegnato il fascicolo dove era scritto ‘omicidio colposo’, io dissi che non avrei fatto nulla se non si fosse partiti da omicidio volontario. Bisognava procedere con trasparenza, combattere le opacità e quella vecchia terribile mentalità che c’era a palazzo di Giustizia e nella Polizia. Quando mi presentai in questura mi guardarono malissimo e non capivano che io facevo prove ed esperimenti, portandomi dietro i cronisti, nell’interesse della verità. Facemmo mille accertamenti, cercammo tutti i riscontri possibili, ma gli indizi che portavano all’omicidio volontario vennero meno uno dopo l’altro”. “L’ambulanza. Sulla chiamata dell’autovettura venne fatto un romanzo giallo. Allora senza preavviso, insieme al cancelliere, andai al 117, che era il numero dei vigili urbani che allora governavano i servizi di ambulanza. Chiesi di vedere come funzionava. Mi portarono nella sala di controllo dove c’era una grande pianta della città illuminata con i punti in cui stazionavano le ambulanze. Mi fecero vedere da dove veniva l’ambulanza per Pinelli e l’ora in cui era stata chiamata. Presero il registro, lo aprirono sul giorno 15 dicembre [1969] ed era segnato che esattamente a mezzanotte e un minuto era stata chiamata l’ambulanza di piazza Cinque Giornate. Quindi facemmo l’esperimento per vedere quanto impiegava – perché si era detto che era stato lasciato per terra non so per quanto tempo – e si vide che ci volevano pochi minuti. Coincideva perfettamente l’orario della caduta e quello della chiamata, non c’era nessun giallo”. “Il siero della verità. C’era il segno di una puntura d’ago nel braccio di Pinelli. Si sosteneva che in questura gli era stata iniettata una dose di scopolamina, di siero della verità, in seguito al quale Pinelli aveva avuto il malore e per questa ragione lo avevano gettato dalla finestra. Invece era il segno della flebo che gli era stata fatta in ospedale per tentare di salvargli la vita. Io mi presentai al pronto soccorso, dove il medico di turno mi disse: ‘Ancora con questa storia! Vada a vedere i giornali, mi ricordo che entrò un fotografo e scattò’. Trovai sul Corriere d’Informazione la foto di Pinelli con la flebo nel braccio, feci sequestrare i negativi, li feci stampare e li allegai agli atti. Anche questo indizio venne meno”. “Il colpo di karate. Nell’autopsia si parlava di una macchia oculare. In questo caso si sostenne che era stata causata da un colpo di karate. Facemmo una perizia dopo aver riesumato ila salma e stabilimmo che non c’era stato nessun colpo di karatè. La macchia, come spiegarono tutti i periti, era dovuta alla permanenza del cadavere sul marmo dell’obitorio”. “La caduta. A questo punto c’era un altro indizio, quello del punto di caduta del corpo. Richiamai i portantini, quelli dell’ambulanza, la gente presente e mi feci indicare il punto di caduta. Vedemmo che coincideva esattamente con il punto in cui c’erano i rami spezzati di un grosso cespuglio, che erano stati fotografati il giorno dopo, e c’era anche una traccia dell’urto sul cornicione sotto la finestra. Non le dico il questore Guida come mi guardava mentre io facevo questi esperimenti giudiziari in questura, il sancta sanctorum della Polizia. Un magistrato che entrava a indagare sulla Polizia per omicidio volontario… Uno solo dei testimoni indicò un punto diverso, più lontano: era un giornalista dell’Unità, una persona abbastanza anziana che non aveva avuto il coraggio di avvicinarsi a Pinelli e aveva indicato un punto generico. Dissi chiaramente in sentenza che bisognava stabilire l’attendibilità dei testi e che i testi che avevano indicato il primo punto erano i più credibili. Mentre stavo scrivendo la sentenza di proscioglimento, Panorama, che allora era un settimanale di sinistra, pubblicò il parere di un gruppo di professori di Fisica – li cita ancor oggi Liberazione – che volevano dimostrare che il corpo di Pinelli non era caduto a un metro e mezzo dal muro, come sostenevo io basandomi sui riscontri oggettivi, ma a quasi cinque metri, perché il punto indicato dal giornalista dell’Unità era sette o otto metri e loro avevano fatto la media tra i punti indicati dai testimoni. La perizia iniziava con queste parole: ‘Fatta la media tra le distanze indicate dai testimoni…’. Io nella sentenza mi premurai di spiegare: badate, cari fisici, che le deposizioni non si valutano matematicamente, perché non ci sarebbe bisogno dei giudici, ma si valutano a seconda dell’attendibilità e questa si ha con i riscontri obiettivi. Dopo due o tre anni uno di questi professori bussò alla mia porta. Gli domandai: ‘Scusi, lei chi è?’. ‘Sono un professore di Fisica, uno di quelli che firmarono il documento, sono venuto per chiederle scusa, lei ci ha dato una grande lezione’.” […] “Allora studiammo le possibili modalità della caduta, la traiettoria e facemmo gli esperimenti giudiziari addirittura in piscina per stabilire cosa fosse successo. Furono fatte tutte le valutazioni possibili e immaginabili, finché la soluzione data dai tecnici evidenziò che il corpo si era appoggiato alla ringhiera ed era caduto. Pinelli era in questura da tre giorni, quasi digiuno, non aveva dormito, era stato fermato la sera del 12 dicembre [1969] e messo in uno stanzone con tutti gli altri fermati di destra e di sinistra – poi naturalmente i manifestanti di destra, essendo quello l’orientamento della polizia di allora, furono mandati via – ed era stato sottoposto a questo lungo interrogatorio. Probabilmente si sentì male, ebbe le vertigini e si accasciò sul davanzale, che era alto solo novanta centimetri. Addirittura facemmo un esperimento che indignò ancora di più il questore Guida: feci fare un manichino con lo stesso peso e le stesse proporzioni di Pinelli, per vedere dove sarebbe arrivato se fosse stato gettato dalla finestra. Si evinse che il corpo non poteva essere stato spinto da altri, ma che si era accasciato; insomma, non c’era nessuna prova che Pinelli fosse stato ucciso. Nessuna prova. L’ipotesi più probabile è che, dopo l’interrogatorio, abbia aperto la finestra per prendere una boccata d’aria, che il digiuno, la stanchezza, la tensione abbiano provocato un giramento di testa, una vertigine, e che, quindi, sia caduto dalla ringhiera”. “La stanza. Tutti, concordemente – e c’era anche un ufficiale dei carabinieri, il tenente Lograno – dissero che nel momento in cui Pinelli precipitò Calabresi non era nella stanza perché era andato a riferire ad Allegra. L’anarchico Pasquale Valitutti, che era in una stanza vicina, disse di non aver visto passare il commissario Calabresi. Io andai anche a constatare l’esatta distanza tra gli uffici, il percorso fatto da Calabresi e la visuale che poteva avere Valitutti dal punto in cui si trovava. Poteva non averlo visto perché nello stanzone c’era solo una piccola finestra che dava sul corridoio e uno doveva starci davanti con lo sguardo fisso per vedere chi passava. Così pronunciai una sentenza di proscioglimento anche nei confronti del commissario Calabresi per non aver commesso il fatto, ma nel frattempo era stato ucciso. Poi misi sotto processo quelli della Polizia per l’arresto illegale di Pinelli, perché non era stato comunicato alla magistratura, ma se la cavarono in seguito a un’amnistia” […] Le calunnie, ripetute con insistenza, sono capaci di costruire una biografia. Non posso non tornare a pensare a mio padre e al personaggio che venne costruito tra il 1969 e il 1972, con la collaborazione di giornali, pièce teatrali, film, volantini e scritte sui muri, che in parte mi sembra sopravvivere al passare del tempo, alle smentite, alle evidenze. Ma ci sono cliché inaffondabili. Così tocca leggere ancora oggi che Luigi Calabresi era stato addestrato in America, che era uomo della CIA, che nel 1966 fece da accompagnatore ufficiale al generale americano Edwin A. Walker e che fu lui a presentarlo al generale Giovanni De Lorenzo […] Mio padre non parlava una parola d’inglese e non ebbe mai prima le possibilità, poi il tempo per viaggiare. L’unico timbro sul suo passaporto è stato messo a Barcellona il 31 maggio 1969. primo giorno del viaggio di nozze che portò i miei genitori a Granada e Siviglia, dove mi concepirono. Poi, per lavoro, andò in Svizzera. Mai oltreoceano. Ma potrebbe essere tutto opinabile, vai a sapere la dietrologia, se non fosse per un piccolo particolare: l’anagrafe. Si era laureato nel 1965, aveva fatto il concorso per diventare vicecommissario e nel 1966 partecipò al corso di formazione della scuola di Polizia. Che la CIA si affidasse a Roma a un neolaureato, che poi gli avesse dato l’incarico di fare da guida a Roma a un generale e che un allievo della scuola di Polizia fosse il tramite tra gli americani e un golpista italiano è quasi divertente a immaginarsi, tanto è incredibile.
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da Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là, 2007 Mondadori
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